Valdesi


Le origini

I valdesi prendono il loro nome da Valdo, un mercante di Lione vissuto nel XII secolo, il quale aveva iniziato a vivere con radicalità la propria fede cristiana al termine di una profonda crisi spirituale che lo aveva portato a vendere i suoi beni per donarli ai poveri e per tradurre ampi brani delle Scritture nella lingua del popolo. Si mise a predicare con alcuni compagni, non con l’intenzione di fondare una nuova chiesa, piuttosto volendo partecipare al rinnovamento ispirato alla riforma di papa Gregorio VII. La gerarchia della chiesa ebbe dapprima un atteggiamento ambivalente nei confronti di Valdo e dei suoi seguaci, talvolta minaccioso, talvolta benevolo, sin quando, però, iniziò a perseguitarli come eretici. Durante la repressione da parte dell’Inquisizione, i valdesi si estesero in gran parte dell’Europa (soprattutto nelle Alpi Cozie, nella Provenza, in Calabria e in Germania meridionale) come movimento clandestino per un rinnovamento della chiesa, mettendo al centro della loro proposta la fedeltà al Vangelo e la povertà della chiesa.

Famiglie e gruppi venivano visitati dai barba (dal tardo latino barbanus “zio”, nel senso di persona di riguardo), cioè da predicatori itineranti che conoscevano a memoria grandi parti delle Scritture.

Adesione alla Riforma protestante

Due i momenti significativi dell’adesione dei valdesi alla Riforma protestante: il Sinodo di Chanforan del 1532, durante il quale decisero di finanziare una nuova traduzione della Bibbia, e la costituzione, dopo poco più di vent’anni, in chiesa riformata con riunioni e luoghi di culto pubblici, con pastori che predicavano, insegnavano e amministravano i sacramenti nella lingua del popolo e concistori di laici che governavano le chiese locali. In diversi territori delle Alpi piemontesi, come era già avvenuto in molte parti d’Europa, il modello riformato di chiesa sostituì completamente il vecchio culto cattolico.

Quando il duca di Savoia rientrò in possesso delle Valli alpine cercò di costringere i valdesi all’abiura, con provvedimenti sia burocratici sia militari. I valdesi decisero di resistere con le armi, avendo la meglio sulle truppe sabaude e arrivando così a sottoscrivere una Convenzione (1561) che permetteva loro il libero esercizio del culto protestante all’interno delle Valli. In quegli stessi anni la comunità valdese di Calabria veniva sterminata e quella pugliese ricondotta al cattolicesimo. Salvo la Valtellina, che vide una significativa presenza protestante fino al “sacro macello” del 1620, i valdesi del Piemonte restavano quindi l’unico avamposto del protestantesimo europeo a sud delle Alpi.

Il Seicento vide altri tentativi di distruzione della popolazione valdese: nel 1655 fu perpetrato il massacro conosciuto come le Pasque piemontesi, che provocò una indignata protesta di tutti gli Stati protestanti europei e una grave crisi diplomatica tra il Piemonte e l’Inghilterra di Cromwell. Nel 1685 Luigi XIV di Francia proibì la professione della religione riformata, seguito un anno dopo dal Principe di Piemonte Vittorio Amedeo II. Questa volta le truppe ducali sbaragliarono la resistenza dei valdesi, che furono deportati in massa. Alle poche migliaia di superstiti fu concesso l’esilio in Svizzera. Questi ultimi tornarono dopo tre anni con una spedizione armata conosciuta come il Glorioso Rimpatrio e poterono nuovamente insediarsi nelle Valli.

Nell’Italia dell’Ottocento

Un importante cambiamento avvenne il 17 febbraio 1848 con la promulgazione delle Lettere Patenti del re Carlo Alberto, che finalmente riconoscevano i diritti civili e politici dei valdesi. Giunta la notizia alle Valli, i valdesi festeggiarono con l’accensione di falò che, contravvenendo all’odiosa imposizione del coprifuoco fino ad allora in vigore, festeggiavano una nuova era all’insegna della libertà. Da allora, la ricorrenza del 17 febbraio si celebra tutti gli anni, unica festa popolare di origine risorgimentale che ha avuto una continuità fino ad oggi in Italia.

La libertà civile e politica concessa dal sovrano fu interpretata estensivamente anche come libertà di culto. I valdesi vollero partecipare al fermento politico e sociale dell’Italia risorgimentale promuovendo un programma di riforma religiosa, morale e civile.

Alcune librerie nelle grandi città, ma soprattutto le librerie ambulanti dei “colportori”, venditori di Bibbie in italiano (lettura vietata dalla Chiesa cattolica dell’epoca), riuscirono a diffondere circa venti milioni tra Bibbie e Nuovi Testamenti in tutto il territorio nazionale. Oltre a un consistente numero di chiese in tutta Italia, i valdesi fondarono presidi sociali aperti a tutti: convitti, orfanotrofi, scuole di artigianato, ma soprattutto scuole elementari, dando un contributo significativo all’alfabetizzazione nel paese. Molto spesso, in assenza di un pastore, maestre anche giovanissime presiedevano i culti e predicavano. Altrettanto intenso fu l’impegno nel campo sanitario e assistenziale con fondazioni di ospedali, ricoveri per anziani, asili.

In quegli stessi anni migliaia di valdesi emigrarono dalle Valli piemontesi sovrappopolate verso le pampas del Rio de la Plata e costituirono numerose chiese.

Il Novecento e i primi anni duemila

Nel primo decennio del Novecento il numero degli evangelici in Italia passò da 60.000 a 160.000.

Nei confronti della prima guerra mondiale, la Chiesa valdese, dopo un’esitazione iniziale, aderì al fronte patriottico, anche se non mancarono voci critiche e qualche isolata ma profetica posizione pacifista.

Durante il periodo fascista, il culto passò formalmente da culto “tollerato”, come era classificato nello Stato liberale, ad “ammesso”, ma nella realtà subì restrizioni e vessazioni da parte dei fascisti, in particolare dopo la ratifica del Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede (1929).

Il Sinodo del 1943 discusse un ordine del giorno in cui la Chiesa valdese si umiliava davanti a Dio per non aver saputo assumere una posizione critica nei confronti del regime. Dopo l’armistizio, molti valdesi aderirono al movimento partigiano, soprattutto nelle formazioni di “Giustizia e libertà”.

Il cammino della riconciliazione post-bellica fu segnato dalla costruzione del Centro ecumenico di Agape, che venne diretto dal pastore Tullio Vinay e vide la partecipazione di giovani volontari da tutta l’Europa, molti dei quali ex combattenti su fronti opposti. Negli stessi anni veniva fondato il Consiglio ecumenico delle chiese, istituzione mondiale di ecumenismo e dialogo di cui la Chiesa valdese figura tra i fondatori. II Congresso evangelico italiano del 1965 diede nuovo impulso alla collaborazione tra le chiese, in particolare tra valdesi e metodisti, che dieci anni dopo strinsero un patto di integrazione.

Il Concilio Vaticano II aprì la Chiesa cattolica al dialogo ecumenico. Tra cattolici e valdesi nacquero collaborazioni locali e rapporti istituzionali.

Nel 1984 venne ratificata l’Intesa tra lo Stato italiano e la Chiesa valdese, in ottemperanza all’articolo 8 della Costituzione repubblicana. Dieci anni più tardi il Sinodo chiese di partecipare al meccanismo di ripartizione dell’Otto per mille IRPEF, ma per finanziare esclusivamente interventi culturali, sociali e assistenziali in Italia e all’estero, realizzati sia da istituti ecclesiastici, sia da associazioni laiche.

Dagli anni Sessanta anche le donne possono accedere al ministero pastorale, al pari degli uomini, indice questo di una sensibilità nuova nei confronti dell’emancipazione femminile. Dall’inizio del nuovo millennio la Chiesa valdese si è impegnata per l’integrazione nella società e nelle chiese delle persone migranti, in particolare per i profughi provenienti da zone di guerra o di depressione economica, per i diritti delle persone omosessuali, per l’attenzione alla questione ecologica e climatica, interpretando queste nuove sfide alla luce dell’annuncio e della testimonianza cristiana in Italia e nel mondo.