«Poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo 18,20).
I cristiani, come gli appartenenti ad altre fedi, hanno sempre sottolineato l’importanza della fede personale, che va coltivata direttamente, che non può essere fatta per interposta persona. Una specie di palestra dello Spirito che, come quella fisica, richiede allenamenti personali e quotidiani (o almeno settimanali) per rimanere in forma. Ma la dimensione comunitaria resta fondamentale: Gesù, prima di cominciare a predicare, costituisce intorno a sé la comunità dei discepoli e delle discepole; e il significato della parola “chiesa” indica coloro che sono convocati (dallo Spirito) in assemblea. Insomma non un fatto sociologico ma spirituale.
Chiudere i luoghi di culto, o almeno non svolgervi più i consueti incontri, come si è dovuto fare ovunque si è diffuso il Covid-19, mette dunque a dura prova la missione spirituale delle fedi viventi, cristiani compresi. E richiede la ricerca di modi nuovi per continuare a essere vicini alle persone, accompagnarle, assisterle con la parola e la preghiera, confortarle e incoraggiarle. Sì, c’è internet, ci sono i videomessaggi, i messaggini, le telefonate, le iniziative creative per tenersi in contatto. Ma la testimonianza che si può dare di persona è un’altra cosa.
In questi giorni si è aperta una discussione pubblica piuttosto vivace sui tempi e i modi della riapertura dei luoghi di culto, non solo cristiani ma di tutti. Infatti, come il divieto delle “funzioni religiose” ha coinvolto tutte le fedi praticate, così la ripresa di tali funzione coinvolge tutti. E non tutti hanno gli stessi spazi fisici a disposizione, e non tutti hanno le stesse modalità di incontro che conosciamo e pratichiamo noi. Quindi non è semplice prendere una tale decisione. Speriamo di potere tornare presto a rivederci di persona, possibilmente rafforzati da questa difficile esperienza, ma senza leggerezze, mettendo cioè al primo posto la responsabilità verso la salute collettiva e individuale.