“Mangerete a sazietà e loderete il nome del Signore, vostro Dio, che avrà operato per voi meraviglie, e il mio popolo non sarà mai più coperto di vergogna”.
Gioele 2, 26
In una celebre scena del Brancaleone di Monicelli, l’ebreo Abacuc, che giace in punto di morte nell’arca con le ruote che è stata la sua casa per tutta la vita, viene confortato dalle parole di Brancaleone, il quale gli va prefigurando un paradiso dove gli angeli porgono al vecchio “gran pagnotte e cacio e vino in abbondanza”. Io non credo che questa dimensione di traboccante fisicità sia molto distante dalla visione dei tempi messianici che si presenta a Gioele, dove la lode a Dio si accompagna alla sazietà materiale in una prorompente manifestazione di ricchezza e regalità.
Non vi è più carestia: le acque irrorano abbondantemente una terra grassa e fertile seguendo il corso delle stagioni e i campi donano i loro frutti, mentre la lode piena di stupore e meraviglia si innalza al cielo. Sono i tempi nuovi che il Signore ha preparato per il suo popolo.
Ma questo nostro mondo che sta “in mezzo” ci appare, al contrario, costitutivamente fondato sulla carenza; vige, al suo interno, un principio di esclusione nei confronti di qualsiasi sazietà possibile, per il quale lode e beni abbondanti si presentano come drammatica alternativa. In questo aut aut prevale il mondo come lo conosciamo: la divisione dei confini, lo stringere, l’afferrare, l’accaparrare, l’escludere. Qui, anche il massimo dell’abbondanza e della sazietà, non fa che presentarsi con il volto di una carenza senza limiti, di un vuoto incolmabile. In queste condizioni di ansia e di fame, di insoddisfazione cruenta e di angoscia non si può escludere il venir meno della dimensione della lode. Eppure, avviandoci semplicemente al mattino su un viottolo di campagna fra gli orti e le vigne, la visione di Gioele traspare pur sempre tra le maglie del nostro presente così tragico, come offerta di salvezza davanti a noi.