A cinquant’anni dall’approvazione del Patto di integrazione, le chiese metodiste e valdesi si interrogheranno su un modello di accoglienza significativo ed esemplare per altre potenziali forme di fraternità
Poteva giungere trent’anni prima l’unione delle chiese metodiste a quelle valdesi, ma sarebbe stato, di fatto, l’assorbimento della componente metodista minoritaria nella più grande Chiesa valdese, sotto la pressione del bisogno determinato dalle gravi difficoltà affrontate dai metodisti per l’interruzione del supporto vitale delle missioni americane e inglesi, di potenze, cioè, divenute nemiche dell’Italia fascista, durante la Seconda Guerra mondiale. Il rifiuto da parte di un’illuminata dirigenza valdese di questa prospettiva consentì, invece, di procedere, sulla base di un ampio processo di consultazione delle chiese locali, non verso una sorta di “fusione a freddo” (dettata da ragioni di necessità o convenienza), ma con una spinta ideale forte, alimentata in modo decisivo da una generazione di giovani, pastori e laici, che erano cresciuti e si erano formati insieme.
Ne scaturì un originale modello ecumenico di unità, per alcuni versi in ritardo sui tempi e per altri sorprendentemente avanti rispetto a sfide che, nel mondo globalizzato, sarebbero diventate ben presto cruciali, non solo per le chiese, ma anche per le società civili e in particolare per le democrazie occidentali.
Era in ritardo sui tempi un modello di unità pensato per una Chiesa essenzialmente “missionaria” e dunque idealmente in espansione, proprio negli anni in cui le chiese (tutte) vivevano già la realtà di una graduale decrescita. Era quanto meno in affanno sui tempi l’impianto ecclesiologico (frutto soprattutto del genio giuridico di Giorgio Peyrot) di un “Patto di unione di chiese locali”, centrato sulla massima valorizzazione della responsabilità primaria di elaborazione e testimonianza proprio delle chiese locali, espresso anche attraverso le forme di collegamento territoriale dei Circuiti (di origine metodista) e dei Distretti; in un’epoca, però, in cui si stava esaurendo la forza propulsiva delle spinte di democratizzazione, declericalizzazione e partecipazione allargata dal basso che avevano ispirato profondi processi di riforma e di sperimentazione di nuove formule e nuovi linguaggi anche nella società civile.
Si è rivelata, invece, incredibilmente avanzata e aperta verso il futuro l’idea di una “unità plurale per somma di valori”, nata chiedendosi non «a che cosa devo rinunciare per rendere possibile il camminare insieme in unità con l’altro?», ma «quali doni specifici mi impegno a coltivare per contribuire al bene comune?» e «quali doni dell’altro considero un arricchimento per lo sviluppo dell’unico corpo ecclesiastico?»
Questa idea ha intercettato e provato a dare una soluzione a interrogativi quanto mai attuali oggi: come coniugare disciplina e libertà, offrendo un quadro ordinamentale e pratiche unitarie che consentano un pluralismo (teologico, ecclesiologico, etico) non disgregante? Quanto pluralismo ci si può permettere dentro lo stesso corpo? Ed ancora: come coniugare unità e valorizzazione di identità particolari, che non camminino lungo le strade parallele del multiculturalismo, ma accettino la sfida di un’interazione dinamica?
Nonostante i limiti e le carenze della concreta attuazione del modello disegnato – nella comune, crescente fragilità delle chiese – la soluzione trovata per fare stare insieme valdesi e metodisti, salvaguardando i riferimenti denominazionali come portatori di diverse storie, esperienze, sensibilità teologiche e spirituali, visioni e pratiche riconosciute come patrimonio comune nell’emozionante preambolo del Patto d’Integrazione, ha creato la cornice che ha reso possibile, più di un decennio dopo, l’aprirsi alla sfida (inimmaginabile nel 1975!) dell’ “Essere Chiesa Insieme”: un nuovo processo di integrazione, in un quadro di piena e paritaria cittadinanza all’interno dello stesso corpo ecclesiastico, con fratelli e sorelle giunti da altri Paesi per lo più da faticosi percorsi migratori, in cui la chiesa che si offre come casa comune accetta di essere anche un laboratorio di convivenza e un ambiente di apprendimento interculturale.
Ne potrebbe forse scaturire una nuova generazione di giovani cresciuti e formatisi insieme, attrezzati alla complessità delle società odierne e capaci di spingere la Chiesa verso i cambiamenti necessari per svolgere in modo ancora vitale e credibile la missione di annuncio dell’Evangelo nel mondo di oggi? E può questo modello plurale e accogliente – facendo tesoro di ciò che si è appreso dall’esperienza maturata e comunque forti della convinzione di un cammino irreversibile, benedetto dal Signore – sviluppare ancora le sue potenzialità verso nuove aperture?
Tratto da Riforma.it