Prosegue la rubrica “Un pensiero in libertà” del pastore Marco Di Pasquale
Nel romanzo di Franz Kafka, Il processo, il protagonista Josef K., viene formalmente accusato di un crimine di cui nulla riesce a sapere con precisione e del quale si proclama incolpevole. Egli cerca in vari modi – con grande impegno, spesso con veemenza ma senza esito – di preparare la sua difesa per il fantomatico processo, che in realtà, lungo tutto il corso del romanzo, non viene mai celebrato davvero. Avrà luogo invece, alla fine, la brutale esecuzione della sentenza di colpevolezza, la pena capitale, alla quale Josef sembra ormai mestamente rassegnato.
Il romanzo, scritto nel 1914-15, fu in seguito interpretato, fra lʼaltro, come una prefigurazione dei regimi totalitari, sorti di lì a poco in Europa. Ma è più di questo. È una metafora della vita umana, intesa appunto come condanna a morte per un delitto di cui non si ha coscienza ma del quale si è comunque colpevoli. Una situazione, questa, che istintivamente giudichiamo come ingiusta. Il nostro giudizio cela però una inconsapevole rimozione: la pretesa di avere ragione rimuove quello che un tempo era sentito come bisogno di giustificazione. Possiamo giudicare ingiusta quella metafora della vita, e quindi rifiutarci di leggerla come tale, perché siamo convinti che ciò che ci rende giusti, legittimi, anche rispetto alla vita, sia lʼavere ragione: siamo giusti se abbiamo ragione, se la nostra “memoria difensiva” regge alle accuse, se ne è più forte – giungendo fino a negare la legittimità stessa del poter essere messi sotto accusa.
Letta in questo modo, quella profonda rimozione è tuttʼaltro che astratta, e trova oggi la sua espressione macroscopica nella rapida perdita di autorità di istituzioni quali lʼONU e la Corte penale internazionale, e nel re-instaurarsi del diritto dei forti a spregio dei deboli.
Da molto tempo, ormai, viviamo nel non senso, senza sentire alcun bisogno che la nostra propria esistenza venga giustificata. Josef K., moderno Giobbe, è oppresso da un apparato grottesco e incomprensibile che lo accusa e a cui invano pare opporsi. Mai chiede grazia. Però rappresenta altresì il fallimento della nostra presunta autonomia individuale e umana, dellʼautogiustificazione, del nostro miserabile “aver ragione”.
Karl Barth sosteneva che Dio non è meno totalitario dei regimi totalitari: vuole anzi possederci fin nei più reconditi recessi del nostro intimo, facendoci suoi. Ma appunto così ci rende giusti, non della nostra giustizia ma della sua – la sola che, per grazia, giustifica il nostro esistere.
