“Ed Esaù gli corse incontro, l’abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero”.
Genesi 33, 4
Giacobbe ha paura. Paura del fratello cui ha fatto torto e verso il quale sta ora ritornando. Temendo il peggio, lo abbiamo visto affaccendarsi affinché alla fine qualcosa della sua famiglia si salvi. Tutto è ansia, senso di colpa, angoscia.
Ma quando leggiamo la lapidaria frase di disarmante semplicità dell’incontro, proviamo un moto di commozione profonda. Siamo colpiti dalla pace che irrompe improvvisa e dalla scena dei fratelli che, infine riconciliati, si abbracciano e piangono insieme. Nella stringata laconicità del testo ebraico si tratta di nove parole.
Che dire di più? La riflessione potrebbe chiudersi qui stampandoci nella mente quelle benedette nove parole. Per la verità, nel prosieguo del brano, c’è ancora qualcosa da sistemare. Si tratta dei doni: sì, perché l’accettazione del dono comporta la completa estinzione del debito e a questo proposito il testo non tace di qualche residua titubanza. Ma qui, in questo caso, la pace precede il negoziato e non il negoziato la pace. La pace irrompe gratuita e fragile.
Ma Giacobbe che incontra il fratello è però un uomo claudicante per aver subito poche ore prima, nella notte sulle rive dello Jabboq, un incontro di qualità ben differente.
Egli ha ricevuto una benedizione alla fine di una lotta furibonda con l’angelo di Dio, ma al contempo quella benedizione è segnata da una menomazione fisica che gli viene inflitta. Un segno sul suo corpo, tanto rilevante da essere all’origine di un tabù alimentare.
Qui è il punto: la ricezione, l’esercizio della pace, il dovere della riconciliazione corrisponde all’essere sciancati da Dio. Soltanto attraverso questo essere resi claudicanti è possibile incamminarci verso la pace, perché un cammino di pace non può essere che un cammino faticosamente zoppicante; un cammino che può essere intrapreso soltanto attraverso questo claudicare, dove deve venir meno, ad un certo punto, ogni calcolo umano.