«Gli occhi di tutti sono rivolti a te, e tu dai loro il cibo a suo tempo»
Nel calendario liturgico di diverse chiese evangeliche, nella 19a domenica dopo Pentecoste si celebra la festa del ringraziamento per il raccolto: eredità di una società e di una chiesa legate in ampia misura ai cicli della natura, fatti propri dall’essere umano e vissuti come luogo della presenza provvidente di Dio. Gli storici dell’economia ci dicono che, oggi, un chicco di grano seminato rende in misura incredibilmente maggiore rispetto all’epoca di Lutero, o al Medioevo: si potrebbe dunque dire che sussistono ragioni ancora migliori per essere grati. Qualcuno potrebbe rilevare, tuttavia, che sono state la scienza e la tecnica, non le preghiere delle chiese, a incrementare la redditività (anche) del lavoro agricolo. La gratitudine del XXI secolo, dunque, sembra rivolgersi, a volte in termini più o meno larvatamente religiosi (basta sentire gli Angela, padre e figlio) all’opera umana, non a quella di Dio.
Anche quando rendeva molto meno, però, l’agricoltura produceva a sufficienza per nutrire tutti: il problema era la distribuzione del prodotto, a tutto vantaggio dei detentori del potere; oggi si produce molto di più, ma la gran parte dell’umanità è affamata. Insomma: scienza e tecnica hanno saputo migliorare la produzione, ma non la distribuzione del cibo.
Il salmo 145, dal quale è tratto il nostro versetto, celebra precisamente il Dio della giustizia: secondo la Scrittura, certo, Iddio nutre garantendo il frutto della terra, ma soprattutto preoccupandosi di coloro ai quali la partecipazione a tale frutto è negata. Oggi più che mai, la gratitudine per il «raccolto», cioè per i beni materiali che permettono la vita (si veda il commento di Lutero, nel suo Piccolo Catechismo, alla richiesta del pane quotidiano) costituisce un impegno «politico». I beni ci sono: se i nostri occhi sono rivolti a Dio, i suoi sono rivolti a noi, per vedere come li distribuiamo.