«Così parla il Signore degli eserciti, Dio d’Israele, a tutti i deportati che io ho fatto condurre da Gerusalemme a Babilonia: Costruite case e abitatele; piantate orti e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete e non diminuite. Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene.» (Geremia 29, 4-7)
Costruire case, piantare alberi e coltivare orti, creare relazioni d’amore e legami di famiglia, sono gesti di speranza, di fiducia nella vita, di coraggio, nonostante tutto.
Nella sua lettera agli esuli in Babilonia il profeta Geremia invita il popolo d’Israele, costretto a rimanere per un lungo periodo in terra straniera, nemica, non soltanto a pregare per essa, ma a compiere questi gesti concreti, che promuovono la vita, che creano condizioni di “shalom”, di convivenza pacifica. Nel tempo difficile dell’esilio non bisogna abbandonarsi né all’illusione di un prossimo ritorno, né alla disperazione, ma pregando per un futuro shalom (Geremia 29, 11) abitare pienamente il presente, qui e ora, anche nella sua precarietà .
Con le immagini della casa, dell’orto e del flusso delle generazioni, Geremia non solo esorta gli esuli a fare in modo che la vita continui, ma afferma anche che il futuro promesso comincia già ora, in esilio, in terra straniera, se non viene cercato in modo esclusivo. Nell’invito “Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare e pregate per essa” si apre uno spazio per gli altri, e non soltanto per l’altro del proprio popolo, anche per lo straniero, in questo caso il nemico. Anche in circostanze impossibili – esilio, schiavitù, precarietà – Dio rende possibile nuovi inizi, da chiedere a lui tanto per l’altro quanto per sé.
Noi da questo messaggio del profeta Geremia possiamo sentirci interpellati forse non tanto come “esuli” (anche se qualcuno si riconoscerà in quella condizione), ma più come “abitanti di Babilonia”, chiamati a lasciare per i tanti esuli fra noi una spazio di vita nelle nostre preghiere e concretamente nelle nostre città , intese non come luogo chiuso e ostile, ma aperto ed ospitale, come spazio per case, orti, famiglie, luogo da abitare insieme, tutti in qualche modo “esuli”, tutti pienamente cittadini.