Vivere l’Avvento tra pietà personale e suggestioni letterarie. Così potrebbe riassumersi la conversazione che segue con Antonio Spadaro, teologo, critico letterario, già direttore della Civiltà Cattolica e dal 1 gennaio 2024 sottosegretario eletto del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione.
L’Avvento è la preparazione alla venuta del Signore. Quale possibilità ci offre questa attesa?
Mi chiedo spesso: per che cosa io sono pronto? Credo che noi siamo preparati per i nostri sogni, per le nostre attese. Ma una cosa è «attendere» e un’altra è «essere pronti». Chi attende veglia ma può addormentarsi nell’attesa. O perdere la tensione, oppure la pazienza o la voglia. Può anche disperare. Ma la domanda vera e importante è un’altra: siamo pronti per abitare le possibilità che la vita ci mette davanti? E, se siamo persone di fede, siamo pronti per il Signore che viene quando e come vuole lui?
Il problema vero, dunque, non è che cosa dobbiamo aspettarci, ma per che cosa siamo pronti. Questo è un punto cruciale, che richiede tutta la nostra immaginazione. Spesso trasogniamo un catalogo di immaginette già stampate e pronte all’uso. Ma tra immaginetta e immaginazione c’è una grande differenza, c’è un abisso.
La nostra vita è preparazione a qualcosa, a un futuro che non conosciamo ma che desideriamo grazie alla nostra capacità di immaginazione. Senza immaginazione non riusciamo a essere pronti per la vita, né possiamo avere fede. Se non suonasse irriverente, direi che il Signore arriva come il pallone in una partita di calcio: bisogna prenderlo da dove viene, essere pronti come un calciatore sul campo.
Oggi i cristiani si trovano immersi in un tempo mondano, un eterno presente o un infinito impalpabile, in cui non sembra esserci posto per la meraviglia e la sorpresa. Come ci si esercita all’attesa del Signore?
Perché noi siamo abituati al probabile, un eterno presente di continuità, perfettamente deducibile. Siamo abituati a quello che le nostre menti suppongono che, statisticamente parlando, possa accaderci o accadere in generale. Abitiamo il prevedibile. Invece, spesso ci manca l’immaginazione del possibile, che a volte viene confinato nel mondo dell’utopia. Non siamo abituati ad abitare nella possibilità, come invece recita un verso di Emily Dickinson: «I dwell in possibility». Abbiamo allora bisogno di un ritrovato realismo che rompa i nostri schemi e che ci apra a immaginare un mondo diverso: «fare nuove tutte le cose», come dice l’Apocalisse. Anche il nostro mondo personale. Questo ci apre alla meraviglia, alla sorpresa dell’inatteso.
Che differenza c’è secondo lei tra gli uomini e le donne soli davanti al loro domani e quelli che hanno creduto nell’avvento di Dio e aspettano il suo ritorno?
La vita d’oggi per molti sembra essere affamata di sazietà, di soddisfacimento dei bisogni immediati, di una agiatezza priva di necessità impellenti di salvezza. L’essere umano fa sempre l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell’orizzonte delle cose manipolabili. Eugenio Montale ha forse usato le parole più dense ed espressive per dire questa situazione nella celebre poesia Non chiederci la parola tratta dalla raccolta intitolata significativamente Ossi di seppia: «Ah l’uomo che se ne va sicuro,/ agli altri ed a se stesso amico,/ e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro!».
Chi crede nell’avvento di Dio, d’altra parte, percepisce uno squilibrio misterioso, un «misterioso zoppicare», come disse Henri de Lubac. Da una parte infatti, come creature, noi credenti sperimentiamo in mille modi i nostri limiti; dall’altra parte siamo abitati da una compagnia che è una sete profonda, cuore inquieto per il quale l’interno del mondo non basta. Viviamo di una presenza che sappiamo e sentiamo essere con noi, e d’altra parte attendiamo. Mi piace il termine «desiderio» perché fotografa questa situazione: significa provare la mancanza («de-») delle stelle (in latino sidera) che però sono sopra i nostri occhi, che vediamo, che ci sono. È la presenza che genera un senso di nostalgia.
La speranza cristiana non è tanto qualcosa che possediamo ma Qualcuno che venendo a noi ci possiede. I credenti avvertono ancora l’urgenza di questo incontro, come sentinelle impazienti dell’alba?
L’urgenza dell’incontro è per me una definizione della fede. Mi fa pensare a una poesia di uno scrittore livornese troppo poco noto, Luciano Luisi. È in corso una telefonata. Pronto! Chi? No, non è lei, non è la persona che vogliamo risponda. Lui nei suoi versi si chiede se non si sia inventato «un nome che volevo rispondesse». E il poeta telefona e telefona ancora, e non si capisce se la persona che lui sta cercando esista davvero o se non sia tutto un miraggio, un’ipotesi, la proiezione di un desiderio struggente che non può avere risposta. Al telefono la donna amata non risponde. Se qualcuno risponde non è lei. E allora il poeta si spoglia, si infila nel letto, si copre fino agli occhi per essere libero di immaginare, di inventare la donna che non c’è, per ingannare se stesso, dunque. E così la voce del nostro desiderio spesso si accontenta di tacere sotto le coperte, soffocata e al buio. E a volte essa conduce persino a una ricerca senza senso nel posto sbagliato: «Ti cerco dove non sei / sapendo di non trovarti». Perché la donna esiste davvero solo nel suo cercare. La speranza cristiana è sempre in linea, avverte l’urgenza della risposta, dell’incontro. Come chi ama e resta sempre in attesa impaziente di quella telefonata. Sì, siamo posseduti dall’attesa.
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