Una riflessione del moderatore della Tavola Valdese per il tempo di Pasqua
Torre Pellice, 15 Aprile 2019
“Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades” (Apocalisse 1,18)
“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Romani 12,21)
Pasqua, per i cristiani, è un nuovo inizio: là dove aveva trionfato l’ingiustizia e la morte, trionfa la giustizia e la vita; là dove aveva trionfato il peccato e la paura, trionfa la grazia e la gioia; là dove si era espresso il massimo del male, trionfa il massimo del bene. Ecco, ero morto, ma ora sono vivo e lo sarò per sempre, le chiavi della morte e dell’Ades sono nelle mie mani, dichiara “uno simile a un figlio d’uomo” (Ap. 1,13), cioè il Risorto nella sua gloria.
La vittoria del bene sul male è frutto di una lotta immane in cui anche Dio è impegnato direttamente, con i suoi strumenti però, non con quelli tipicamente umani della forza e della violenza, che non producono una soluzione definitiva, una guarigione duratura. L’intera vicenda di Gesù – il suo insegnamento, la sua misericordia e le sue azioni – illustrano in modo esemplare quale sia stata la sua “arma” speciale: l’arma impropria del bene. Per questo, a Pasqua l’esito di questa lotta è la vittoria del bene sul male. Definitiva, anche se non ancora pienamente compiuta.
Su questo fondamento l’apostolo Paolo incita il credente: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene“. Il verbo “vincere” usato all’imperativo indica con chiarezza che il credente non è chiamato a subire l’ingiustizia e il male “con cristiana rassegnazione”, come recita un noto adagio popolare. Il credente in Gesù reagisce e, a suo modo, combatte. Le sue però, come per Gesù, non sono le armi convenzionali della forza e della violenza ma l’arma impropria del bene. Quanto è potente nelle mani dell’essere umano? Forse più di quello che leggiamo sui manuali di geopolitica. L’arma del bene non è la rassegnazione al prepotente di turno ma un’azione che, oltre a contrastare il male, vuole estirparlo alla radice.
Quando il pastore evangelico Martin Luther King guidava le marce nonviolente, non si contrapponeva semplicemente ai razzisti. Con il bene della nonviolenza egli voleva sconfiggere il razzismo che covava negli uomini incappucciati che linciavano i neri così come nei tutori delle forze dell’ordine che si scagliavano su manifestati nonviolenti. E così il bene della nonviolenza divenne un’arma di “conversione di massa”. Quando il pastore Tullio Vinay faceva apporre sul muro della chiesa all’aperto del Centro ecumenico di Agape il versetto di I Corinzi 13 “l’amore non verrà mai meno”, indicava la forza più potente e definitiva per la conversione dell’animo umano, che bisognava praticare e non solo predicare.
La Bibbia non è ingenua e non è astrattamente pacifista – nelle sue pagine scorre molto sangue – ma conosce nel profondo l’animo umano. E ci dice che se vogliamo sconfiggere il male – anche quello che agisce con la brutalità del terrore – dobbiamo costruire il bene, dobbiamo capovolgere la logica della reazione che è sempre tentata di usare gli stessi mezzi di chi uccide e aggredisce. La società isoli i criminali, la polizia faccia il suo mestiere e catturi i criminali, il magistrato li condanni secondo la legge. Va bene. La Bibbia, però, indica al cristiano un’altra strada, lo invita a non barricarsi nell’odio e nel sentimento di vendetta ma ad avere fiducia nella forza anomala del bene. Altrimenti, che senso avrebbe Pasqua?