Intervista a Francesca Debora Nuzzolese, docente di Teologia Pratica alla Facoltà valdese di teologia
In un tempo segnato da morte, guerre e violenze anche la fede cristiana può essere messa a dura prova. Eppure per i credenti resiste questa convinzione, che il male sarà sconfitto e che una nascita ci assicura la vittoria della vita sulla morte. Con la pastora Francesca Debora Nuzzolese, docente di Teologica Pratica alla Facoltà valdese di teologia, ci siamo interrogati sul senso che il Natale reca con sé in questo tempo ferito.
In maniera molto diretta le chiedo: che cosa è per lei il Natale?
Per me il Natale è la celebrazione della nuova creazione di Dio che abbraccia l’ordine creato diventando una creatura. Celebrando la nascita di Gesù, rinnoviamo la nostra fede in un Dio che sceglie di dimostrare il suo amore diventando amore puro, Emmanuel, Dio con noi, in noi e per noi. Fin dall’inizio della vita, Dio ci ha già amati e ha deciso di avvicinarsi a noi per farci sentire e sperimentare il suo amore. Ecco perché Dio ha scelto di diventare come noi, di divenire carne, corpo, cuore, mente, sofferenza, gioia, condivisione, relazione. Con la nascita di Gesù celebriamo dunque la nostra nascita come figlie e figli di Dio, e ciò che Gesù è per natura, noi diventiamo per grazia. Testimoni per fede di questo atto divino straordinario e sconvolgente, accogliamo l’invito e rinnoviamo il nostro impegno a diventare anche noi nuove creature, capaci, in Cristo, di immaginare e praticare una umanità diversa, allineata con quella che Dio ci mostra possibile nella vita e missione di Gesù.
Come possiamo festeggiare Natale in questo tempo segnato da conflitti devastanti?
Il tempo in cui Gesù apparve non è molto diverso dal nostro, e forse è ovvio ma necessario ammettere che ogni tempo della storia umana è segnato da espressioni di atroce tenebrosità. È forse proprio nel contesto del trauma, della violenza, dell’espressione peggiore del nostro potenziale umano, che il messaggio di amore puro pronunciato da Dio nell’incarnazione diventa più scioccante e prorompente. È proprio nel mezzo di queste tenebre paralizzanti che la luce di Cristo si fa più accecante, la speranza più sfacciata, la pace, costruita con cura e compassione, più sfidante. In questo tempo, come in ogni tempo e situazione segnata da tutto ciò che nega la vita, il modo coerente per noi credenti di vivere il Natale è mettere al centro della nostra attenzione e delle nostre relazioni la postura non-violenta, accogliente, compassionevole e umile che Gesù ha incarnato. Tale postura deve essere scelta non come outfit natalizio, ma come pratica di vita, coltivata con intenzione, ogni giorno, ogni momento, cominciando dalle relazioni più intime, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nelle nostre istituzioni, nei nostri condomini e quartieri, e nelle nostre città, per poi lasciare che questa relazionalità arrivi a contagiare il resto del mondo.
Un altro modo pratico e coerente per vivere il Natale potrebbe essere quello di minimizzare (se non radicalmente rifiutare) di partecipare alla dimensione commerciale e consumista di questa festa, per entrare pienamente nell’esperienza umana e politica di Gesù, che con più probabilità potremmo incontrare in una visita al Regina Coeli, o tra le macerie di Gaza, piuttosto che in un centro commerciale o una chiesa super addobbata.
I cristiani si presentano spesso come i padroni del Natale ma faticano ad esserne dei testimoni autentici. Lei che ne pensa?
Nel calendario liturgico, la festività del Natale si propone come l’opportunità annuale per noi credenti non solo di celebrare, ma soprattutto di rinnovare il nostro impegno ad allineare la nostra vita con quella di Cristo, assumendo la postura umana che Gesù ci ha mostrato possibile quando è vissuto su questa terra. Ricordare che il Dio che amiamo e rispettiamo abbia scelto di discendere nella condizione umana, partendo dal suo “basso fondo” per così dire, nella forma di un bimbo vulnerabile, in un paese sofferente, da una coppia più o meno anonima, non è solo sconvolgente come proposta ma anche una sfida a ri-valutare il modo in cui viviamo e pratichiamo la nostra fede, e ri-considerare con onestà chi veramente siamo e stiamo diventando come cristiani. Se l’impatto dell’incarnazione non si rileva nella nostra vita quotidiana, se non mostriamo almeno il desiderio e la volontà di vivere come nuove creature, trasformate dall’amore di Dio rivelato in Cristo, allora questo evento straordinario, questa proposta radicale e sconvolgente, distintiva della fede cristiana, perde la sua gravitas teologica, il suo potenziale trasformativo, e noi cristiani, rimaniamo tristemente testimoni vuoti e ipocriti.
La memoria di un Dio che si è fatto uomo ci riporta alla nostra umanità e a quella dell’altro. E forse anche alla necessità di amare i nostri nemici?
Se il Natale riconosce il “sì” di Dio all’umanità, allora il nostro compito più urgente è di farci riflettori della luce di Cristo in mezzo alle tenebre dell’odio, della violenza e della guerra. E anche in mezzo alle tenebre di tutti i “no” all’umanità che vengono pronunciati e incarnati quotidianamente dalle nostre politiche, dalle nostre scelte economiche, e anche dalla nostra indifferenza verso chi soffre a causa nostra. Celebrare la venuta di Gesù sulla terra e nella nostra vita non significa rimanere nostalgicamente attaccati al passato, ma attivare la nostra capacità di incarnare la sua postura e seguirlo nei suoi insegnamenti più radicali e improponibili, come quello di perdonare chi ci ha ferito, di fare spazio nelle nostre case, chiese, e nazioni a chi ha perso tutto nella fuga della migrazione, e avere il coraggio di capire perché alcuni individui e gruppi umani siano diventati i nostri nemici così da poter cominciare il percorso complesso ma necessario che ci può portare ad amarli.