“In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me”.
Un tempo, ne abbiamo traccia nei modi di dire, si identificava essere umano e cristiano, tanto che ai tempi delle leggi razziali la gente semplice, provando compassione per gli Ebrei discriminati, diceva: “Quei poveri ebrei, son cristiani pure loro” o qualcosa di simile, volendo dire, ovviamente, che gli Ebrei erano anch’essi esseri umani. Questo avveniva in una società, almeno ufficialmente, cristiana nella quale ciascuno era automaticamente battezzato alla nascita e, a una certa età, cresimato, essendo questi gesti rituali modalità stabilite e scontate di ingresso nella società. La chiesa primitiva, quella dei tempi di Paolo, era una piccola realtà all’interno di organismi sociali più grandi e si distingueva tra “quelli di dentro” e quelli di fuori. Riprendendo il nome dell’apostolo, l’autore della Prima lettera a Timoteo esorta i credenti a pregare per tutti gli uomini (1 Timoteo 2:1), allargando l’orizzonte all’umanità intera in una prospettiva inclusiva. Ma a chi si riferisce Gesù parlando di “minimi fratelli”? Si riferisce ragionevolmente a tutti coloro che si trovino in una condizione di debolezza e precarietà, visione che Gesù condivideva con l’etica dell’ebraismo contemporaneo e con quanto si insegnava nella Legge di Mosè riguardo al sostegno dovuto ai deboli, incluso gli stranieri: “Maledetto chi calpesta il diritto dello straniero, dell’orfano e della vedova!” (Deuteronomio 27:19). Riconoscere nel bisognoso, senza operare indebite distinzioni, il volto di Gesù e lo sguardo di Dio è il migliore antidoto all’amore umano, spesso condizionato da tanti “se” e “ma”. Dio apre così la nostra esistenza all’irrompere del suo amore, incondizionato, immeritato e gratuito, così il sì dell’uomo all’uomo risponde al sì di Dio all’uomo e per l’uomo. Stampa