«Chi riceve voi, riceve me; e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato. Chi riceve un profeta come profeta, riceverà premio di profeta; e chi riceve un giusto come giusto, riceverà premio di giusto. E chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è un mio discepolo, io vi dico in verità che non perderà affatto il suo premio».
C’era una volta un re, esiliato dal suo regno, che vagava ramingo e solo, di villaggio in villaggio. Se veniva alloggiato malamente e malamente sfamato, ma accolto da re, parlava con quelli di casa con tale confidenza come neppure quand’era a corte con i suoi più intimi. Così fa anche Dio, da quando è in esilio.
Questa breve storiella ebraica sembra spiegare molto bene il significato delle frasi di Gesù. Gesù invia i dodici apostoli in missione, esortandoli e incoraggiandoli, e termina con le parole che abbiamo letto. Perché mai questa missione? Forse per fare propaganda? La risposta di Gesù è un’altra: perché «chi riceve voi, riceve me; e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato». Gesù stesso è inviato in missione per portare l’evangelo; è questa la prima cosa che ci accomuna a lui, come cristiani. Ricevere qualcuno che porta l’evangelo, perché porta l’evangelo, significa ricevere Gesù stesso, e anzi Dio stesso: significa accogliere Dio presso di sé.
Quando diciamo che l’evangelo è Parola di Dio, non intendiamo semplicemente che “sta scritto nella Bibbia”. La Bibbia è un libro, che può restare muto come qualsiasi altro libro, se non se ne coglie il messaggio. Intendiamo dire invece che, quando accogliamo l’evangelo, Dio sta realmente parlando con noi, proprio con noi – così familiarmente, come un tempo a corte neanche con i suoi più intimi. Ci sta parlando come alle persone a lui più a care, da lui più stimate. Accogliere chi porta l’evangelo, perché porta l’evangelo, significa accogliere Gesù come il Cristo; e accogliere Gesù Cristo, significa accogliere Dio come Dio: come desidera essere accolto.
Le parole di Gesù ci dicono anche di più. Egli sta dicendo, in sostanza: “Chi accoglie me, accoglie Dio come Dio; e chi lo accoglie in tal modo, partecipa della sua gloria”. Quando accogliamo Gesù Cristo nella nostra vita, in noi stessi, siamo resi partecipi della gloria stessa di Dio. E la prima cosa che accade è che Dio ci parla, tanto intimamente, come solo ai profeti e ai giusti. Cosa? Ma se ciascuno e ciascuna di noi, guardandosi dentro, non può considerarsi più di un miserabile?! Eppure, Dio parla a noi, e ci associa alla sua gloria, già ora!
E in che consisterebbe questa gloria, a cui Dio ci associa? Questo premio, paragonabile a quello dei profeti e dei giusti? La gloria di Dio è visibile, ancora una volta, in Gesù Cristo: è una gloria che attraversa la sofferenza, e fin la morte e l’infamia, e su di esse s’innalza, dopo averle vinte. Ma la buona notizia è che il caro prezzo di quella gloria, alla quale veniamo associati, è stato pagato, interamente, dalle sofferenze di Gesù, che egli ha vinto.
Ecco perché, nell’ultimo versetto, si parla non dei grandi e dei giusti ma dei minimi, dei piccoli. La gloria di Dio è quella di Gesù Cristo, abbassato e umiliato, eppur vittorioso; la gloria di colui che era grande e si è fatto piccolo – la gloria di un re in esilio, come quello della storiella ebraica.
Ecco: noi cristiani e cristiane siamo piccoli, sofferenti, tutt’altro che giusti e grandi. Ma portiamo un messaggio di gloria e di salvezza, portiamo agli altri una persona che è la gloria e la salvezza di Dio. E se qualcuno ci dà un piccolo, misero bicchier d’acqua perché in qualche modo ha riconosciuto in noi quella persona, Gesù Cristo, quegli ha accolto il re in esilio, come re, e non perderà il suo premio.