«E ne verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e staranno a tavola nel regno di Dio»
Questo insegnamento di Gesù trasmesso sia da Luca che da Matteo 8,11 raccoglie il retaggio degli oracoli contenuti in Isaia, in particolare nei capitoli 49 e 56. Nella versione di Matteo tale collegamento a Isaia è ancora più esplicito: si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli. L’ebraismo, infatti, affida la salvezza di tutti i popoli, il popolo d’Israele incluso, soltanto a Dio. Una persona che rispetta i cosiddetti sette precetti noachidi che riguardano sostanzialmente i rapporti umani e le relazioni sociali è considerata “giusta”, a prescindere dalla sua appartenenza religiosa.
In questi giorni si svolge la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Da un lato percepiamo la gioia di pregare insieme, dall’altro avvertiamo la presenza degli ostacoli dottrinali che non ci permettono di celebrare insieme un gioioso banchetto eucaristico. Probabile che lo potremo fare ancor prima dell’avvento definitivo del Regno, ma è anche verosimile che non giungeremo mai a tale livello di comunione.
Oggi, tuttavia, la domanda centrale per tutte le chiese cristiane è la seguente: una chiara, esplicita e pubblica confessione della fede cristiana e la conditio sine qua non per conseguire la salvezza eterna? Può sembrare strano che la maggior parte delle chiese e delle facoltà di teologia rispondono con un “no”. La causa primaria e sufficiente della salvezza eterna di un essere umano è soltanto la Grazia di Dio. Le conseguenze teologiche ed esistenziali di tale affermazione sono piuttosto impegnative. Da una parte bisogna respingere ogni forma di proselitismo cristiano, dall’altra non ci si può mai stancare di annunciare che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità (I Timoteo 2,3-4).