È invalsa da tempo nelle chiese evangeliche l’abitudine di ricordare la data del 31 ottobre 1517, quando Lutero affisse le sue 95 tesi. Aveva l’idea di avviare un dibattito sulle indulgenze e invece cambiò la fisionomia della cristianità europea. Il movimento di opinione da lui scatenato si conosce ormai come la Riforma. In realtà questa espressione (scritta sempre con la maiuscola) nasce molto più tardi, nella storiografia tedesca ottocentesca che vedeva in quel periodo la nascita della sua identità storica. A questa stessa lettura della storia si devono le espressioni: «i Riformatori», ormai abituale per indicare i personaggi di quell’epoca, e quella altrettanto classica di «Controriforma» per indicare le misure prese dal papato per bloccare l’avanzata del movimento luterano.
Gli storici cattolici del XX secolo hanno obiettato che il profondo rinnovamento a opera del concilio di Trento non era tanto una presa di distanza dalle posizioni evangeliche (anche se aveva sotto alcuni aspetti anche quel carattere) quanto l’attuazione di una vera riforma per cui, storicamente parlando, si deve usare l’espressione «Riforma cattolica» più che Controriforma. E di fatto è così per due motivi.
Anzitutto perché la riforma della chiesa era un progetto coltivato da tempo in tutti gli ambienti del cattolicesimo dell’epoca. Alessandro VI aveva già nominato una commissione per questo, i camaldolesi la chiedevano al papa Leone X, la auspicano i cardinali al quinto concilio del Laterano, la prevede Paolo III, formando una apposita commissione con il fior fiore del collegio cardinalizio, e sarà lui che convocherà il concilio nel 1545.
Per lui, scrive Obadia, «Lutero, per il quale il denaro distrugge ogni comunità umana, può essere considerato come il vero fondatore del socialismo europeo le cui fonti appaiono quindi religiose».
Che ci sia uno stretto nesso tra protestantesimo e libertà – e in particolare la libertà di coscienza – è cosa ovvia per ogni protestante. Un nesso che risale alla famosa difesa di Lutero davanti alla dieta di Worms (18 aprile 1521), alla presenza dell’imperatore Carlo V: «La mia coscienza è prigioniera della parola di Dio e io non posso, né voglio ritrattare alcunché. Agire contro la propria coscienza non è né prudente né lecito. Qui sto fermo. Non posso fare altro».
Questo nesso tra protestantesimo e libertà di coscienza, lo ha ricordato con forza il pastore François Clavairoly nella sua predicazione all’Assemblée du Désert, nelle Cevenne, domenica 7 settembre, incentrata sulle parole dell’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, cap. 5: «Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi» e «Voi siete stati chiamati a libertà ». Clavairoly non ha mancato di citare chi precedette Lutero e gli altri Riformatori del ‘500 in questa lunga battaglia per la libertà di coscienza: Valdo, Jan Hus, John Wycliffe. Battaglia proseguita nei secoli successivi da altri protestanti, tra cui Roger Williams, Pierre Bayle, Pierre Jurieu, John Locke, Immanuel Kant, Pierre e Marie Durand, Jean-Jacques Rousseau, Alexandre Vinet, Ferdinand Buisson. Tutti erano, come Lutero, profondamente convinti che la loro coscienza era «prigioniera della Parola di Dio» e cioè indissolubilmente legata all’esperienza concreta di una liberazione compiuta da Dio.
Jaurès, nato in una famiglia cattolica tradizionale, non era né materialista né positivista; anzi, era convinto che con il socialismo si sarebbero realizzati gli ideali cristiani di libertà , uguaglianza e fraternità , ossia il motto stesso della Rivoluzione francese alla quale, non a caso, parteciparono attivamente alcuni protestanti, come il pastore Jean- Paul Rabaut Saint-Etienne, autore della «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino». Non va dimenticato che nel 1906 altri due pastori, gli svizzeri Hermann Kutter e Leonhard Ragaz, avevano fondato il movimento del «socialismo religioso » al quale aderirono molti protestanti tra cui il giovane Karl Barth. Nulla di strano quindi che il protestantesimo sia considerato come «vero precursore della libertà » e come «una religione del socialismo». Jaurès insisteva però: non il cattolicesimo dogmatico che, per essersi messo al servizio dei «calcoli astuti dei potenti», ha allontanato gli uomini dalla religione, bensì il protestantesimo inaugurato dalla Riforma di Lutero che, più che religione, è fede nel Dio «totalmente Altro», per dirla con Barth, di cui nessuno si può accaparrare.
Per Jaurès, solo il protestantesimo, con la sua carica profetica e dinamica, era in grado di realizzare quella che Teilhard de Chardin chiamerà più tardi la «cristificazione» dell’umanità e del creato.
Infine, va ricordato, come fa Jean Baubérot su Réforme, il ruolo decisivo svolto da Jaurès, in appoggio al gruppo di protestanti liberali che ne furono i principali artefici, nella creazione della laicità e in particolare della legge del 1905 sulla separazione tra chiese e Stato che, non a caso, all’articolo 1, «assicura la libertà di coscienza» e «garantisce il libero esercizio dei culti». Baubérot sostiene giustamente che la libertà di coscienza è la madre di tutte le libertà , che «include» la libertà di pensiero e la libertà di religione. Nel momento in cui i fondamentalismi religiosi (non solo quello islamico), responsabili della degenerazione della religione in idolatria, stanno tragicamente calpestando questa preziosa libertà che ha in Dio la sua sorgente, è più che mai necessario portare avanti la battaglia per la libertà di coscienza, confidando nel Dio liberatore che «ci ha chiamati a libertà ».
Tratto dal settimanale Riforma del 31 ottobre 2014