L’attività teologica di Jürgen Moltmann – classe 1926 e docente emerito di Teologia sistematica alla Facoltà di Teologia evangelica dell’Università di Tubinga (Germania) – non è certamente riducibile al suo celebre libro Teologia della speranza, pubblicato la prima volta nel 1964. I sessant’anni del volume invitano tuttavia a ripercorre la proficua attività di un teologo tra i più importanti del XX secolo. Al professor Fulvio Ferrario – docente di Teologia sistematica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma – abbiamo rivolto alcune domande.
– Partiamo dall’abc, professor Ferrario. Che cos’è la «Teologia della speranza»?
«In dialogo con il filosofo neomarxista Ernst Bloch, Moltmann intende pensare la rivelazione cristiana, nel suo complesso, a partire dalla categoria di “speranza”. Tra le realtà che, secondo Paolo (I Cor. 13,13), “restano”, la tradizione cristiana ha approfondito prevalentemente la fede e l’amore. Concentrandosi sulla speranza, Moltmann pone l’accento sul futuro e presenta Dio anzitutto come colui-che-viene, colui che introduce nella realtà l’elemento del nuovo».
– Quella definizione in prospettiva dialogica, messianica e escatologica, è ancora argomento di dibattito teologico (in prospettiva ecumenica) a sessant’anni di distanza?
«È giusto sottolineare che Teologia della speranza è un testo molto inserito nel clima ottimistico degli anni Sessanta del XX secolo: fine del colonialismo nelle sue versioni “ufficiali” (e religiosamente benedette!), disgelo tra Est e Ovest, speranze di rinnovamento cattolico con il Concilio Vaticano II, fiducia in un’espansione della giustizia sociale, curiosità positiva nei confronti delle potenzialità della scienza e della tecnica. Oggi lo scenario è considerato di solito in termini assai più pessimisti. Personalmente, credo che le categorie di ottimismo e pessimismo, così come vengono impiegate, anche nelle chiese, non permettano di cogliere il significato cristiano del termine “speranza”. Esso ha a che vedere con la fedeltà di Dio, che è rivelata nella storia di Gesù Cristo. Moltmann, ha cercato di interpretare cristianamente quella fase un po’ euforica. Noi abbiamo il compito di raccontare Gesù in un’Europa che dice di essere disincantata, ma che sembra ansiosa di dar retta alle peggiori sciocchezze, raccontate da cialtroni e demagoghi di varia foggia».
– «Il libro di Moltmann – così affermò allora il teologo Ernst Käsemann commentando l’uscita del volume – rappresenta la conquista di una posizione avanzata, attestata in un continente inesplorato e quasi inaccessibile, e il segno di una nuova problematica che va delineandosi e va investendo tutto l’impianto della teologia». Perché il teologo definì quella “posizione avanzata” una “problematica” per l’impianto teologico di allora?
«Käsemann ha sempre sostenuto che molte comunità cristiane primitive ponevano, in un linguaggio religioso, un problema politico: “a chi appartiene la terra”? Ai potenti di questo mondo o al Dio rivelato in Gesù? Lo stesso annuncio della giustificazione per grazia, così caro alle chiese della Riforma, non dev’essere, secondo Käsemann, interpretato in chiave individualista (“Come faccio ad andare in cielo?”), bensì in chiave politica: la giustizia di Dio è la sconfitta dei poteri che schiavizzano gli esseri umani. Moltmann, secondo Käsemann, ha il merito di aver ricordato la centralità di questo messaggio politico delle prime comunità, contro un cristianesimo politicamente conservatore».
– Questa centralità è argomento per possibili discordie teologiche?
«Non direi necessariamente per discordie. Nemmeno però vorrei accontentarmi di un linguaggio superficialmente pio, tipo: “la speranza unisce sempre”. Ritengo che la chiesa debba annunciare Cristo come contestazione del cinismo quotidiano nel quale le società ricche, specie in Europa, sono precipitate. Se la morte non è l’ultima parola, allora questa vita può essere carica di possibilità. La premessa, però, cioè la risurrezione di Cristo come fonte della speranza, è essenziale, altrimenti parliamo a vuoto».
– La pace è oggetto di speranza?
«È una domanda difficile. Lavorare per la pace è parte della lotta contro la di-sperazione. Non credo, però, che per questo, bastino i proclami che dicono di essere “profetici” e neanche le citazioni di Moltmann. Le chiese non saranno, probabilmente, protagoniste di questo cammino: qualche guru ecclesiastico sarà magari ascoltato con benevolenza, ma la politica e la diplomazia utilizzeranno gli strumenti loro propri. Due cose, però, si possono fare subito. A) Prendere le distanze da chi proclama guerre sante in nome della fede cristiana. B) Imparare a dialogare, nelle nostre società plurali, sui temi sui quali non siamo d’accordo, sapendo che nessuno vuole “la morte” contro “la vita”: in modi diversi, siamo tutti per la vita, possibilmente un po’ più umana».