«Per un breve istante io ti ho abbandonata, ma con immensa compassione ti raccoglierò.»
Un matrimonio naufragato: ecco l’immagine che troviamo nella seconda parte del libro del profeta Isaia per parlare della relazione fallita tra Dio e il suo popolo all’epoca dell’esilio in Babilonia. Così Gerusalemme distrutta dai Babilonesi, è come una donna dell’epoca antica che, poiché lo sposo si è ritirato dalla relazione, si trova nella più disperata delle situazioni: abbandonata a se stessa. Le immagini dell’abbandono, dell’assenza dello sposo, si dilatano e il popolo è come una donna ripudiata, senza figli, vedova.
Per l’epoca, queste sono immagini dell’umiliazione e del disonore. Umiliazione e disonore, pubblica vergogna era ciò che gli ebrei avevano provato nella distruzione della città della promessa, centro della terra donata da Dio e del culto.
Se Dio abbandona la relazione con noi, se ci percepiamo abbandonati da Dio possiamo anche rassegnarci e sostenere che non c’è alcun dio e che è del tutto inutile pensarlo, considerarlo, meglio concentrarci sulla nostra vita qui sulla terra, tra noi. Per gli ebrei dell’epoca era ovviamente impensabile escludere un dio dalla loro vita. Così si rassegnavano alla nuova vita babilonese, il loro Dio era diventato piccolo, il dio delle vecchie storie da tramandare, di alcuni riti da compiere come segno della loro identità di popolo in una terra straniera.
Isaia annuncia che Dio sorprende, che, contrariamente a quanto le donne dell’epoca sperimentavano, Dio intende riprendere la sua relazione con la città abbandonata. Il popolo deve ritornare a Gerusalemme in rovine, perché lì è il luogo del capovolgimento della sua situazione: avrà una progenie incalcolabile e un amore senza fine. Quale immagine di Dio propone questo testo? Quella della misericordia, del riscatto che gli fa riprendere la relazione. Un Dio che si pente dell’abbandono? Certamente un popolo cui viene annunciato il sorprendente amore di Dio che ricostruisce la tua vita al di là di ciò che puoi pensare.