In un’epoca in cui le cose si consumano rapidamente, il tempo vissuto tende a ridursi a un presente via via più breve, puntuale, effimero
Platone, lʼantico filososfo, definiva il tempo come «immagine mutevole dellʼeterno, che procede secondo il numero». Il suo massimo allievo, Aristotele, lo definiva come «numero del mutamento secondo il prima e il poi». Benché sembrino dire pressappoco la stessa cosa, si tratta di due definizioni molto diverse. Nella prima, il tempo è una realtà derivata, ha il suo fondamento nellʼeterno, in ciò che non muta, del quale è appunto immagine mutevole, imperfetta. Nella seconda definizione, elemento centrale è invece il movimento, il divenire – mentre scompare il richiamo a una dimensione immutabile. Per Aristotele il tempo è sì ordinamento del divenire, ma non è immagine di alcunché di fisso: non riflette altra eternità se non appunto quella dellʼinfinito mutare delle cose.
Nei successivi duemila anni, la concezione del divenire lo vede progressivamente emanciparsi dalla subalternità a qualcosa di fisso, di eterno: esso tende a diventare eterno da se stesso. Certo, è il divenire “delle cose”, ma queste sussistono sempre meno come tali: la loro identità non è più salvaguardata in un cielo immutabile ma rimessa interamente al loro reciproco farsi e disfarsi, che sembra reggersi da sé. Gesù afferma che i nostri «nomi sono scritti nei cieli» (Lc. 10,20), ma col passare delle epoche quei caratteri, almeno ai nostri occhi, vanno a sbiadire. E poiché le cose si consumano rapidamente – e nellʼepoca del Web, cessano addirittura di essere cose e diventano informazioni – oggi il tempo vissuto tende a ridursi a un presente via via più breve, puntuale, effimero: il momento presente.
Il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han parla appunto delle non cose, delle cose che, ridotte a infomi, non costituiscono più un fattore di resistenza. Il rapporto con esse non è di possesso, di cura o di contemplazione, bensì di accesso; e la loro esistenza si riduce alla veicolazione di significati. Ciò sgancia il divenire anche dallʼultimo riferimento a un qualcosa di consistente, di durevole, per rivelarsi la sola e unica realtà che domina tutto. Il tempo, ancorché misura del divenire, devʼessere paradossalmente ridotto al minimo possibile, deve tendere allʼistantaneità, cioè a scomparire, per velocizzare le connessioni, le operazioni, le trasmissioni di dati.
Nellʼepoca nostra di scatenato sviluppo tecnologico e di mostruose guerre senza (un) fine, ci abbaglia il crudo senso odierno dellʼesistere: produzione e distruzione, ugualmente frenetiche. Comʼè silente oggi il cielo dellʼeternità…
