“Egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» Gesù rispose: «[…] Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?»”.
Luca 10,29.30a.36
C’è una tensione sulla definizione di prossimo. Nella domanda del dottore è la persona da amare, verso la quale porsi in atteggiamento di servizio, l’altra persona rispetto a me che sono chiamato ad agire. Nella controdomanda il prossimo non è chi ci aspetteremmo, l’uomo «mezzo morto», ma il samaritano che si fa suo prossimo prendendosene cura. L’altra persona è prossimo per me solo se io mi rendo tale per lei. Il prossimo non è l’oggetto della mia azione, destinatario di un gesto dall’alto in basso, dall’alto delle mie possibilità verso il basso della sua necessità. È invece «l’altro come me» a cui io garantisco ciò a cui io stesso ritengo di avere diritto. «Ama il prossimo tuo come te stesso», appunto. E nella relazione, il centro è lui, o lei, non io e il mio fare, nemmeno io e il mio amare. Questo significa diventare il prossimo, questo significa amare il prossimo: guardare al mondo e all’umanità aperti alla possibilità che ciò che vediamo ci prenda nelle viscere, pronti a identificarci con ciò e chi vediamo. Non ci sono limiti, di comodo o di necessità, all’amore per il prossimo, all’identificazione con il prossimo, alla compassione per il prossimo. Così come non ci sono limiti né condizioni all’amore di Dio per ognuno e ognuna di noi, per ogni persona. Questi due amori sono, senza alcuna contrapposizione, la sostanza dell’Evangelo.