Il 20 agosto prossimo si aprirà a Torre Pellice il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste: su come ci stiamo avvicinando all’importante scadenza, parliamo con la diacona Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese.
Le attività delle nostre chiese sono ripartite, con slancio e con gioia, come se, dopo l’allarme lanciato dall’indagine sulla decrescita, ci fosse stata una reazione, in parte “congelata” dalla pandemia: c’è anche molta voglia di interrogarsi su come vivono le chiese stesse. Forse a volte ci facciamo prendere dall’ansia e siamo troppo pessimisti?
«Sì, mi sembra che si possa finalmente percepire, a vari livelli, uno spirito diverso di fronte a difficoltà e problemi reali, ai quali è importante reagire individuando le priorità, alleggerendosi da alcune sovrastrutture e impegnandosi anche a sperimentare cose nuove. È quello che sta accadendo, a esempio, nel campo del coinvolgimento dei più giovani nelle chiese; nello sviluppo di collaborazioni, in particolare in alcuni contesti urbani, che consentono di muoversi in modo efficace verso periferie e margini; in attività di diaconia in cui aiuto materiale e parola che accoglie e restituisce dignità si uniscono con naturalezza».
Dopo la pandemia sono riprese a pieno ritmo anche assemblee e occasioni internazionali di incontro: che cosa significa per una chiesa piccola come la nostra, far parte delle “internazionali” protestanti?
«Questa dimensione (che nel Sinodo di quest’anno si renderà visibile in un’amplissima rappresentanza che ci riempie di gioia) è sempre stata importantissima per le nostre chiese: è stata fonte di aiuto nelle persecuzioni; ha offerto opportunità di formazione che hanno evitato provincialismi e chiusure, frequenti in piccole minoranze resistenti in luoghi geografici impervi e in contesti opprimenti, consentendo invece a generazioni intere di crescere con una visione del mondo più grande e una circolazione di idee ed esperienze preziosissime. Oggi, nei contesti ecumenici internazionali, pur nella nostra infima piccolezza, veniamo riconosciuti spesso come portatori di un contributo originale e coraggioso».
Vent’anni fa il segretario di un partito politico, in visita alle chiese evangeliche a Roma, disse che una delle principali emergenze di lì a poco sarebbe stata quella della solitudine. Pochi suoi colleghi lo ascoltarono, ma l’interessante fu che egli ne parlasse in quella sede. La politica deve certo affrontare problemi enormi (dalle migrazioni alle guerre, al clima, alla violenza), ma sembra non saper rispondere al disagio delle persone, nemmeno saperlo vedere. In che modo possiamo cercare di farlo come chiese? Abbiamo una percezione diversa della complessità degli individui?
«L’Evangelo ci mostra l’errore di separare le due dimensioni, quella della portata globale dei problemi con cui si confronta e quella dei rapporti di prossimità, in cui si incontrano esseri umani in carne e ossa, la cui realtà concreta, qui e ora, interroga, inquieta, converte lo sguardo. Il Dio che entra nella grande Storia è attento a ogni singolo capello di ogni singola persona; legge nella profondità dei cuori, agisce disturbando il quieto vivere, ispirando, consolando, accompagnando individui che trovano nel servizio reciproco, nella condivisione solidale la strada per la piena scoperta ed espressione di se stessi. Mondo e parrocchia, impegno sociale e spiritualità, comunità e individualità, ampia visione e attenzione al prossimo più prossimo sono dimensioni non separabili se si vuole rimanere fedeli alla vocazione ricevuta!».
Le chiese metodiste e valdesi sono plurali: vi convivono tradizioni e culture diverse per la provenienza di sorelle e fratelli, ma anche per i diversi approcci teologici alla realtà e alla fede: come spiegare questo aspetto composito a una cultura che chiede certezze facilmente comunicabili e giudizi perentori sui temi di attualità, che siano sociali oppure di natura etica?
«È una sfida direi ineludibile per rimanere coerenti con ciò che predichiamo, in un mondo che sempre di più tende ad affermare che la complessità e l’estrema divaricazione delle differenze non possono essere governate se non con strumenti autoritari, con le semplificazioni; che la convivenza pacifica fra diversi è impossibile o comunque non conveniente, che l’unità può essere costruita solo con l’uniformità imposta. In questo quadro siamo chiamati, con pazienza e determinazione, a dare un contributo dissonante, ma a farlo, più che spiegando, praticando, dunque con un esercizio faticoso ma convinto, dentro e fuori le chiese, di modalità relazionali, forme di gestione delle complessità che partono dall’ascoltarsi, da un dialogo autentico, in cui si cresce nella comprensione innanzitutto delle paure, delle preoccupazioni che muovono le viscere, per crescere nell’amore che ispira soluzioni creative e umane, anche nelle situazioni che appaiono più chiuse e irrisolvibili».
Un tema particolare che vorrebbe veder dibattere nelle prossima sessione sinodale?
«Il nostro, per scelta, non è un sinodo tematico, si passa in rassegna un intero anno di lavoro per fare il punto della situazione, individuare criticità, fornire indicazioni per l’anno successivo. Argomenti apparentemente più interni o amministrativi sono importanti quanto i temi che contraddistinguono l’azione delle nostre chiese nella società. Più che di un tema in particolare, l’auspicio è quindi quello di uno spirito pienamente sinodale, del camminare insieme, di un dibattere approfondito e responsabile, in cui ciascuno si fa carico del benessere dell’intero corpo, a cominciare dalle parti più vulnerabili. La Tavola valdese ha scelto di valorizzare nel preambolo del suo rapporto (ma anche con un video e una mostra che saranno presentati durante la settimana sinodale), il ricordo di un Sinodo di 80 anni fa, quello del 1943. Un tempo cruciale, colmo di dolore e speranze, attraversato da feroci divisioni, in cui la discussione su un importante ordine del giorno, legato al nome di Vittorio Subilia (alla fine ritirato) offre non poche suggestioni utili per l’oggi. Ci dice che nessuna forma di riorganizzazione, nessun progetto può funzionare se non parte dal riconoscimento del compito prioritario di annuncio, in tempi e contesti precisi, di un “Evangelo che costituisce l’istanza critica primaria non solo del singolo ma anche della chiesa”. Ci consegna un appello a favore di una chiesa non silente davanti a ciò che contraddice l’Evangelo. Ci richiama alla necessità di riconoscere “il peccato che tocca la chiesa come il singolo, invocando il perdono di Dio e l’azione di conversione dello Spirito santo”. E ci incoraggia a non avere paura di dibattiti franchi e aperti, in cui, però, anche di fronte a significative differenze di posizioni teologiche e politiche, si ricerchino decisioni non dettate da convenienze personali, da protagonismi esasperati o frutto di frettolose unanimità, ponendosi invece tutti e tutte sotto la Parola di Dio con umiltà».