La sfiducia in ciò che verrà vede il diffondersi di tradizioni che guardano al passato
È noto il motto: «Se anche sapessi che il mondo finisse domani, oggi pianterei ancora un albero di mele». Impropriamente attribuito a Martin Lutero, la prima traccia di un suo utilizzo risale al 1944, nellʼambito della Chiesa confessante (i pastori evangelici tedeschi che tentarono di opporsi al regime nazista). Sottintende la serena fiducia nel Signore, anche di fronte al peggio. Dal 1944 a oggi la fine del mondo sembra essere accaduta più volte: sono crollati assetti mondiali e sistemi di vita che si autoproclamavano eterni o destinati a una eterna espansione perché intesi migliori di quanto vi era prima.
Negli ultimi anni assistiamo allʼennesimo, drastico mutamento. La differenza rispetto a quelli passati è che nel sentire comune non si percepisce né si crede di procedere verso il meglio.
Nel 2016 il grande sociologo Zygmunt Bauman diceva: «I millennials sono la prima generazione che teme di non riuscire neppure a mantenere lo standard raggiunto dai genitori», aggiungendo: «Tutte le utopie per quanto diverse tra loro (…) erano collocate da qualche parte nel futuro. Ma utopia e futuro avevano un significato molto simile. Io penso che stiamo perdendo la fiducia nel futuro. Non crediamo più che sia favorevole, che potrà risolvere i nostri problemi, e se gettate uno sguardo sul nostro mondo contemporaneo vedrete il diffondersi di tradizioni che guardano al passato».* Il divorzio fra utopia e futuro non comporta la morte della prima, ma piuttosto un suo riposizionamento nel passato. Bauman la definisce retro-topia, una sorta di utopia reazionaria: la convinzione che il “meglio” stia nel passato, narrato senza obbiettività, e che pertanto quel passato debba essere semplicemente re-instaurato – perché il passato altrui, non vissuto sulla propria pelle, sembra una garanzia contro rischi e incertezze.
Negli stessi anni del discorso di Bauman, prendeva forma a Oslo il progetto “Biblioteca del futuro”: cento opere inedite, offerte una allʼanno da altrettante insigni personalità del panorama letterario mondiale, dal 2014 al 2114, oltre a cento abeti rossi da piantare uno allʼanno, a fornire poi la carta per la stampa (se la si userà ancora). È, certo, un investimento simbolico verso il futuro, ma ricorda insieme lʼatto del piantare alberi prima della fine… È una pascaliana scommessa, da cui traspare, più ancora che fiducia nel futuro, una tacita fede nella Parola di Dio che «dura in eterno».
* in: Ultima lezione. La fine del mondo.