A colloquio con Piero Stefani al termine del suo mandato di presidente del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE)
Torre Pellice, 16 Settembre 2021
Piero Stefani, teologo e biblista, sta per concludere il suo mandato di presidente del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), l’associazione interconfessionale di laiche e laici che promuove l’ecumenismo e il confronto a partire dal dialogo ebraico-cristiano. Un’associazione alla quale diversi membri delle chiese metodiste e valdesi sono legati da anni con un impegno attivo nel cammino ecumenico e nella ricerca culturale e teologica. Abbiamo rivolto a Piero Stefani alcune domande sul comune lavoro di questi anni.
Lei, nei suoi libri, come biblista, ha esaminato l’influsso della Bibbia sulla cultura occidentale. È un influsso che permane anche oggi?
Per cercare di rispondere alla domanda occorrerebbe affrontare il discorso, complesso, del cosiddetto circolo ermeneutico. In termini semplificati l’espressione sta a significare che vi è un influsso reciproco tra il testo e i suoi lettori. Quando si prende in mano la Bibbia la si legge con le nostre categorie frutto di una lunga storia dell’interpretazione nella quale sono confluiti influssi sia biblici sia non biblici. Perciò di fatto noi non leggiamo la stessa Bibbia che venne letta e interpretata in epoche a noi antecedenti. La stessa istanza esegetica di cogliere i significati che l’autore si proponeva comunicare ai suoi primi destinatari rappresenta un metodo (di solito chiamato storico-critico) frutto di un determinato clima culturale proprio dell’Occidente moderno; non a caso la sua egemonia viene fortemente messa in questione nel nostro tempo ormai qualificato come postmoderno. Con molta approssimazione direi che l’attuale cultura occidentale è sempre più orientata a considerare la Bibbia alla stregua di un “classico”, vale a dire un testo sapienziale dell’umanità privo di ogni pretesa di assolutezza. Ciò ovviamente non esclude che continuino ad esserci anche svariati modi confessionali di accostarsi alla Bibbia.
In questi anni lei ha lavorato a fianco di diversi esponenti del mondo protestante. Qual è secondo lei il maggior contributo che il protestantesimo ha portato al lavoro del SAE?
I contributi protestanti al SAE sono stati molteplici. Molti penseranno all’attenzione riservata alla Scrittura, fatto che, nel lungo periodo, è senz’altro vero. Desidero tuttavia sottolineare soprattutto altri due aspetti che risultano problematici, e proprio per questo significativi, sia per gli ortodossi sia per l’ufficialità cattolica: il tema dei ministeri aperti alle donne (di cui si sta occupando ora il gruppo teologico SAE composto da protestanti, cattolici e ortodossi) e quello dell’ospitalità eucaristica. Senza la presenza protestante questi argomenti non sarebbero stati affrontati, o quanto meno sarebbero stati sviluppati in modo diverso.
Al SAE va riconosciuto il grande sforzo di favorire la cultura del dialogo, tra cristiani ma non solo. Come possiamo oggi affiancare al dialogo una testimonianza efficace?
Proporrei una contro-domanda: e se fosse il dialogo stesso una testimonianza efficace? Lo è, ben s’intende, quando è autentico. Ciò comporta due presupposti solo apparentemente contraddittori; occorre, da un lato, affermare le proprie convinzioni più profonde e, dall’altro, relativizzarle; è infatti dato di capirsi e incontrarsi realmente tenendo ben fissa la diversità dei convincimenti reciproci. Ciò implica l’esistenza di realtà umane accomunanti in grado di depotenziare l’inimicizia. Al contrario, quando si mettono tra parentesi le irriducibili diversità , come per lo più avviene in contesti ufficiali, il dialogo mira a riaffermare un uso solo pubblico e civile della religione. L’opzione ha un suo senso, ma nel contempo accantona la profondità del problema sia sul piano della fede sia su quello propriamente umano.
Il mondo che ci circonda è dominato dall’indifferenza. Esiste ancora, secondo lei, una differenza cristiana e in che cosa consiste?
Comincio con un’osservazione laterale: il cammino ecumenico parte dalla constatazione che ci sono differenze anche tra cristiani e che queste differenze, se non riconciliate, indeboliscano la testimonianza comune. Tuttavia la risposta più semplice e autentica alla domanda sta nell’affermare che la differenza davvero qualificante consiste nel mettere in pratica le parole di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo». Cosa significa però credere all’Evangelo? Per molti vuol dire fondare l’universale fratellanza umana sulla paternità di Dio presentando questa convinzione come il più efficace vaccino contro l’indifferenza. Altri, e di persona appartengo a questo novero, credono che la vera sfida consista nel trovare parole nuove, spiritualmente e culturalmente all’altezza, per riproporre nell’oggi la convinzione di Paolo secondo la quale «Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini» (1Cor 15,19). Inutile precisare che ciò non ha nulla da spartire con la “fuga mundi” del tempo che fu.