Il buon pastore ci aiuta a essere comunità fraterna e ad aprirci agli altri
“Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde. Il mercenario si dà alla fuga perché è mercenario e non si cura delle pecore”.
Giovanni 10, 11-13
Erano pastori del popolo i vari re della Mesopotamia dopo aver conquistato il potere, con il compito affidato loro da Dio di guidare, proteggere e nutrire il popolo, proprio come un pastore fa con il suo gregge. In questo panorama si inseriscono i “pastori di Israele” contro i quali si scaglia il profeta Ezechiele (34): “Saranno guai per voi, pastori d’Israele! Voi curate solo voi stessi. Invece i pastori devono avere cura del gregge”.
Parole che oggi dovremmo rivolgere ai presidenti di nazione democraticamente eletti che, anziché guidare e nutrire o amare il popolo, continuano a sacrificare le proprie pecore in una guerra di aggressione contro un altro popolo fratello. Oppure firmano decreti per tagliare quei finanziamenti umanitari essenziali per sfamare milioni di persone nel mondo.
Ecco allora l’importanza di un attributo: buon, riferito a pastore. Così ce lo descrive Giovanni. Non solo un punto di riferimento sociale e politico o una guida spirituale ma una persona con cui entrare in intimità, da conoscere e da cui essere conosciuti. Una persona che ci aiuti a essere comunità fraterna nella diversità dei singoli in attesa di accogliere quegli altri che ancora non ne fanno parte ma che il Signore aspetta ed è pronto a chiamare per nome.
