“Cristo Gesù, ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo”.
Quando si fa diretta esperienza della morte, quando la morte si prende una persona cara e ce la porta via, queste parole suonano difficili al nostro orecchio, dure al nostro cuore, incomprensibili alla nostra mente. Come si può dire che la morte è distrutta, se la morte si porta via con sé senza pietà chi ci è caro? Come si può dire di fronte a quel corpo senza vita che la vita e l’immortalità sono messe in luce? Non è piuttosto la morte ad essere in luce e ad assorbire nella sua cupa oscurità la vita e qualsiasi speranza di immortalità? Bisogna, a questo punto, precisare il senso dell’affermazione. Gesù, con la sua resurrezione, apre una prospettiva del tutto nuova, per la quale la morte non è il punto d’arrivo, il termine definitivo di ogni vita possibile. Certo finisce questa vita con tutti i suoi limiti e la fragilità che la caratterizza, ma se ne apre una del tutto nuova e diversa. Quando proclamiamo durante un funerale queste parole non stiamo negando l’evidenza della morte, né fingiamo che, almeno provvisoriamente, la morte non abbia vinto. Ma è quel provvisoriamente il centro di tutto il messaggio. La morte non ha in Cristo l’ultima parola, non è il nulla l’orizzonte che ci attende, ma una vita nella quale ogni limite è superato, una vita nella quale la morte non ha alcuna parte. Sono questa vita e l’immortalità che ha superato la morte che sono messe in luce, sono per ora promessa nell’annuncio del Vangelo, ma già realtà in atto come ogni promessa di Dio, per cui la speranza è attesa fiduciosa nella dimensione della fede. La morte non è, in Cristo, un muro, ma una porta da attraversare per andare in un altrove luminoso ed entrare in un tempo senza tempo, per essere finalmente solo luce nella luce di Dio.