Gesù ha detto: «IO SONO il buon pastore… e do la mia vita per le pecore.»
Le pecore sono preziose per il pastore, in quanto rappresentano una fonte di reddito: gli danno latte, lana e carne. Sono, insomma, animali che il pastore sfrutta in molti sensi e fino in fondo. Per questo, ci lascia un po’ perplessi che l’Antico Testamento parli di Dio come di un pastore, e del popolo di Israele come di un gregge. E ancor più perplessi rimaniamo per il fatto che il Nuovo Testamento applichi questa metafora a Gesù.
Ma nella Bibbia il rapporto pastore – pecora è capovolto. Non si mette in evidenza l’utilità della pecora per il pastore, e lo sfruttamento che questi fa del suo gregge, ma si mette in risalto la sollecitudine amorevole del pastore per le pecore. Abbiamo tutti nel cuore il Salmo 23, che canta: il Signore è il mio pastore, nulla mi manca. E il Salmo 80 prega il Pastore di Israele perché porga orecchio al grido del popolo (versetto 1), e lo salvi dai pericoli incombenti (vs 3).
È poi quasi superfluo ricordare il pastore di cui parla Gesù, capace di lasciare novantanove pecore per andare in cerca dell’una che si è smarrita (Luca 15,4-6).
Insomma, se nella realtà della vita, e delle sue leggi commerciali, il pastore conta più della pecora, il messaggio biblico sottolinea esattamente il contrario: la pecora vale più del pastore. Se poi il pastore è Gesù, la pecora è tanto preziosa che per le pecore egli dà la sua vita.
Gesù non soltanto conferma la sollecitudine del pastore per le pecore, secondo la tradizione di Israele che abbiamo riscontrato nei due Salmi citati, ma spinge questa sollecitudine fino in fondo, fino al dono di sé. Perciò, l’apostolo Paolo può scrivere: Dio mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Romani 5,8). E perciò, Gesù si può definire non solo il Pastore ma il Buon Pastore.