«La Parola del Signore pervenne ancora a Giona. “Levati, e vai a Ninive la gran città , e fai ivi la proclamazione che ti dico”. Allora Giona (…) ci andò. (…) Proclamava: “Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta”. I Niniviti riposero la loro fede in Dio: proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco. Anche il re. (…) “Diceva: “Che ciascuno si converta e abbandoni la cattiva strada”.»
Forse il postino non suona sempre due volte, ma il Signore dà una seconda chance a Giona. Identica. Il che, sia detto en passant, relativizza non poco i nostri abituali rimpianti, rammarichi e persino rimorsi. “Vai a Ninive”, che sarebbe un po’ come Pechino, Tokyo o New York per il provinciale Giona. Il Signore porta Giona a Ninive, chiedendo in realtà a Giona di portarLo a Ninive. Come un tedoforo, anzi come un teoforo. Gli dice di “proclamare”, verbo quantomai allergenico per un gran refrattario come il Nostro. Ma lui lo fa. E proclama una quarantena invertita: 40 dì attendendo la distruzione. E tuttavia la storia di una catastrofe annunciata non è necessariamente la storia di una catastrofe. Non c’era stato un conto alla rovescia pubblico per Sodoma e Gomorra, né per il Diluvio. Qui sì.
Giona proclama la fine del mondo urbano, e la città – re in testa – proclama il digiuno. È dall’incontro/scontro di queste due proclamazioni che nasce la tensione e la suspense del racconto, passato in poche linee dal più radicale degli “inside” (il ventre del pesce come setting) all’ “outside” assoluto: la pubblica piazza della megalopoli per eccellenza. Per la prima volta si direbbe Giona non nutra stati d’animo: applica le direttive. Da fuggitivo a Megafono di Dio, cui s’inchina la città tutta riservandogli una immensa gratificazione che renderebbe oltremodo invidiosa la Cassandra della mitologia greca. Sull’Eufrate tira aria di Happy End. “Nemo propheta in patria”, ma a Ninive sì. Eppure ci attende ancora qualche versetto e qualche sorpresa…