«[Dal ventre del pesce Giona disse]: “Dal cuore del soggiorno dei morti ho chiesto aiuto, e mi hai risposto. (…) Le acque mi hanno stretto fino alla gola ma tu m’hai fatto risalire vivo dalla fossa, Signore, mio Dio! (…) La mia preghiera è pervenuta sino a te. (…) Ti offrirò sacrifici, dichiarando la mia riconoscenza. (…)”. Il Signore parlò al pesce, che vomitò Giona sulla terraferma.»
Non tutti i salmi sono nei Salmi. Eccone uno fuori posto, quello di Giona. Inatteso e sorprendente. Scritto, anzi detto, “dal cuore del soggiorno dei morti”. Il ventre del pesce come tomba per un sepolto vivo, per un inghiottito vivo. L’uomo che non risponde a Dio nella quiete domestica (è l’esordio del Libro), che disattende Dio sino a fuggirlo per sfuggirgli sul mare ove immagina il “Signore dei Cieli e della terra” non abbia signoria, ora gli parla da sotto il mare e da dentro il pesce. Dio chiedeva. Ora è Giona che chiede. Ma chiede al passato, perché congiunge la domanda alla risposta, non vocale ma operativa: “Tu m’hai fatto risalire vivo dalla fossa, Signore, mio Dio”.
Nel primo capitolo, il dio di Giona arrivava per ultimo, dopo quelli – svariati – degli svariati membri dell’equipaggio, ed era un dio con la “d” minuscola, minore e tardivo. Ora è Lui, Lui solo, Lui l’Unico, e con un pronome possessivo che l’ebraico incorpora come suffisso della parola stessa, sicché “mio” fa tutt’uno con Dio. Non è una Happy End. Giona è tuttora nel ventre del pesce, che possiamo immaginare oscuro, assai poco confortevole, terrificante, e male olente. Nulla sa di ciò che lo attende, e avrà tempo e agio di arrabbiarsi con Dio (un passo avanti significativo sul piano della comunicazione: il precedente era darsela a gambe levate). Ma che importa? La preghiera di Giona – che il profeta, infine profetico, cita – non l’abbiamo, eppur sappiamo che c’era. E tutto finisce, provvisoriamente, in uno… sputo. Il pesce, cui il Signore parla tranquillamente, vomita Giona sulla spiaggia. Come Robinson. Un New Start…