Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore?
A questo interrogativo che racchiude, insieme, un dolore lancinante e quella sincerità di cui esso è figlio, a questa domanda vibrante e sfacciata che chiama direttamente in causa nientemeno che Dio, si affrettano a fornire le loro vane risposte gli amici di Giobbe che, senza dare ascolto al suo tormento, giudicano avventate e inopportune le sue parole.
Alla fine, stanco dell’inutilità di dispute teologiche del tutto indifferenti al dramma dell’uomo, Giobbe cessa di parlare con i suoi amici, e dà inizio ad un dialogo con Dio dalla schiettezza disarmante. Non recede, Giobbe, non sceglie le vie della rassegnazione o dell’ossequio: al contrario, poiché non intende perdere quella fiducia in Dio in cui affondano le radici più profonde del suo essere, preferisce chiamarlo in causa e mostrargli, senza remore né infingimenti, il suo sconcerto. Giobbe è convinto che la fede debba arrivare sin sulla soglia del rinnegamento, piuttosto che allontanarsi da una sincerità senza la quale essa perderebbe ogni valore e ogni senso. Per questo, Giobbe, giunge persino a dettare a Dio delle condizioni ben precise: “Interrogami, ed io risponderò; oppure parlerò io e Tu mi risponderai” (Giobbe 13:22).
Sembra quasi intimarlo a Dio, Giobbe: come in ogni relazione viscerale, la richiesta è quella di un dialogo, di un chiarimento riguardo a ciò che Giobbe non riesce a comprendere e che, per ciò stesso, non gli dà pace. Così come Giobbe, noi viviamo in quell’intervallo interminabile e disarmante che è il silenzio di Dio. Ma anche in questo silenzio, forse, è possibile reperire un senso, sebbene nascosto e per ciò stesso sfuggente. Ci aiutano a farlo le parole di Luigi Pareyson, là dove scrive, con profondo sentimento: “Forse il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua angoscia, non è il silenzio di chi tace perché non c’è, o perché abbandona, ma di chi tace perché piange: e tace, appunto, per piangere”.