«Così Satana si ritirò dalla presenza dell’Eterno e colpì Giobbe di un ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo. Giobbe prese quindi un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie gli disse : “Rimani ancora fermo nella tua integrità ? Maledici Dio e muori!“»
E’ davvero la moglie che sta parlando a Giobbe, o non è forse l’ateo che prima o poi fa capolino in tutti noi, Giobbe non escluso? La Scrittura lo dipinge come “uomo integro e retto [che] temeva Dio e fuggiva il male”, eppure la fiducia in un Dio amorevole, un Dio soccorritore, un Dio vicino sembra stia davvero lì lì per abbandonarlo. Tutti abbiamo avuto l’esperienza del dolore e dell’insignificanza che questo sa trasmettere all’esistenza; tutti abbiamo avuto l’esperienza della solitudine e della disperazione che essa comporta. Restare saldi nella fede quando nella vita tutto comincia a precipitare, è un’impresa titanica. Dio, insieme a tutti gli altri appigli per frenare la caduta, viene improvvisamente meno. La preghiera, come momento di possibile serenità nel dialogo con Dio che sempre si pone in ascolto, è trascurata. Da qui le oscillazioni dei sentimenti, lecite certo, ma non si può vivere la fede nel dubbio costante: Dio oggi c’è per me oppure no? Dio mi ama ancora o non si ricorda più di me? Il dubbio non affrontato distrugge la vita più del problema che affligge. Gesù sulla croce ci offre la via per risolverlo recitando i primi versetti del Salmo 22, a noi chiede di proseguire fino agli ultimi versetti, quelli in cui l’Eterno esaudisce l’afflitto e la lode, allora, si innalza spontanea.