Nel ricordare la figura del pastore Franco Davite, scomparso il 7 dicembre scorso all’età di 92 anni, mi pare opportuno richiamare l’attenzione su tre aspetti della sua personalità e della sua azione.
Il primo riguarda la sua formazione. All’8 settembre del 1943 lui, che era nato nel ’24, non è ancora ventenne, ma si trova a dover fare una scelta fondamentale: o partire con i repubblichini di Salò, o «salire sui monti». Non ha dubbi: si unisce al gruppo Giustizia e Libertà , nato nel frattempo a Torre Pellice (TO) e di stanza alla Sea, con compiti di carattere sanitario, dato che aveva frequentato dei corsi di pronto intervento presso il locale ospedale. Questo non gli impedì di prendere parte a una delle prime azioni partigiane, come l’agguato teso a Rio Cros, poco sopra i Coppieri di Torre Pellice, a una colonna tedesca, armata di tutto punto. In 13, con una mitragliatrice pesante e un paio di fucili mitragliatori, la bloccarono e misero in rotta, conquistandosi così un prezioso bottino di armi e munizioni.
Nel ’44 però, usufruendo di un esonero dalle armi in quanto iscritto alla Facoltà di teologia, opera a Torino con compiti di intelligence e di raccolta di armi. Poi, sfuggendo a un arresto, ripara a Torre Pellice dove rimane fino al giorno della Liberazione. L’esperienza partigiana è stata fondamentale per fargli conoscere gli aspetti nascosti e più inquietanti della nostra umanità e, come diceva, «per acquisire un senso di responsabilità che va portata e che non si può eludere».
Il secondo aspetto riguarda il ministero pastorale. Terminata la guerra, ripresi gli studi di teologia poi conclusi dopo un paio di semestri a Basilea, nel 1950 è mandato a Riesi (CL) dove lavora per alcuni anni; conosce il mondo degli zolfatai e dei braccianti che, all’alba, aspettano sulla piazza che qualcuno li assuma a giornata. Un’altra umanità in attesa di riscatto… L’esperienza sicula si conclude e lui assume la cura della chiesa di Villasecca-Chiotti (TO), dove rimane per circa 10 anni.
Poi, per un altro decennio circa, è a Prali (TO). E qui, forse, dà il meglio di sé. È ormai una persona matura e ricca di esperienze e di umanità . Anche qui ha a che fare con minatori i cui polmoni, anziché bruciarsi per lo zolfo, si chiudono per la silicosi. Quando i minatori della «Talco&Grafite» occupano le miniere, Davite è lì con loro. In quegli anni mette anche mano alla formazione di un museo storico-etnografico. Anche questo fa parte, in un certo senso, della predicazione. La Bibbia è un grande racconto: conoscere la propria storia è anche un riconoscere la potente azione del Signore che opera all’interno della nostra debolezza.
Negli anni successivi è titolare della chiesa valdese di San Secondo (TO); poi, per un certo periodo lavora nella CEVAA e nella Chiesa riformata di Francia. Torna in Italia e coadiuva il pastore di Luserna San Giovanni (TO), dove prende dimora negli anni dell’emeritazione. Ultimamente, rimasto vedovo, era andato ad abitare dal figlio, Marco, a Pomezia. E lì, nonostante l’età , ha continuato a dare il proprio contributo predicando nella comunità locale.
Il terzo aspetto riguarda la diaconia. È chiaro che fin da giovane egli ha oscillato tra medicina e teologia. La preoccupazione di alleviare le sofferenze del prossimo si è espressa accettando vari incarichi nelle nostre opere diaconali. Un compito non facile perché nel dopoguerra le nostre opere diaconali – fino ad allora enti di beneficenza delle chiese, portate avanti da diaconesse non retribuite – hanno acquisito tutt’altra fisionomia. Perciò egli ha fatto parte di vari comitati, interloquendo con Regione e altri enti statali.
Quanto fosse difficile il dialogo con questi può essere illustrato da un aneddoto (ahimè vero!). Facendo una volta anticamera in un corridoio della Regione, colse casualmente questo frammento di conversazione tra due funzionari di passaggio nel corridoio: «I valdesi? – diceva uno – Ma, per carità , quelli non sanno offrirti neanche un caffè!». Ma la diaconia la visse in modo anche molto pratico e personale quando era a Prali e nel presbiterio gestiva, coadiuvato da Maria Luisa, la fedele compagna della sua vita, un dispensario farmaceutico quanto mai prezioso in un paese, spesso isolato dal fondovalle per frane o valanghe.
Nel ricordarne, in questi pochi cenni, la sua collocazione nel panorama ecclesiastico, non voglio dimenticare la sua umanità forte e fragile nello stesso tempo, esposta a dure prove, come la perdita tragica di Lilia, la figlia amata. Ma non le faceva pesare. Forse la Resistenza gli aveva insegnato a essere un «duro»; o forse con il salmista poteva dire: «Nel giorno della paura, io confido in te» (Salmo 56, 3).
Tratto da Riforma del 16 dicembre 2016