«Camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati.»
Nota Paolo Ricca che oggi le chiese guardano molto alla “confessione di fede” e che colui che aderisce ad una chiesa viene definito un “credente”, mentre forse sarebbe più corretto definirlo un “amante”. Se le chiese, conclude Ricca, avessero saputo e voluto affiancare alla loro “confessione di fede” una “confessione di amore” e una “confessione di speranza”, la storia sarebbe stata sicuramente diversa. Queste osservazioni, benché siano volutamente provocatorie, vanno prese molto sul serio.
Se ci nutriamo da questa fonte di amore, siamo chiamati non soltanto a dire o a dare qualcosa, ma a mettere noi stessi al servizio del prossimo. Perché questo accada non basta moltiplicare le iniziative diaconali e neanche qualificare meglio tale attività estendendola dal campo assistenziale a quello politico, come si è fatto in anni recenti. Occorre un mutamento più profondo, un “cuore nuovo” che suggerisca alla chiesa una più profonda comprensione di sé, della sua natura, della sua missione e del modo di esercitarla nel mondo.
È un’utopia? Forse, e certo nessuno di noi è così ingenuo da pensare che basti cantare “mettete dei fiori nei vostri cannoni” per sconfiggere la guerra e la violenza. Ma dobbiamo anche constatare che la “sapienza di questo mondo” non ha dato buona prova di sé, per cui tanto vale provare un’altra strada. Dato che l’essere umano è peccatore, è sicuramente necessaria anche la forza, incarnata dallo Stato (lo dice anche Paolo in Romani 13); ma anche la politica deve imparare ad agire e impostare i rapporti tra i popoli non fondandosi sulla forza e gli interessi economici, bensì sul mutuo rispetto e sulla disponibilità verso l’altro. Vivere l’agape non significa infatti nascondersi la realtà , ma, al contrario, cercare le ragioni profonde dei conflitti per provare ad appianarli e superarli.
Ripetiamo: è un’utopia? Forse; ma, come diceva Tullio Vinay, l’utopia non è ciò che non esiste o non esisterà mai: è ciò che non esiste ancora.