Dio ci esorta a vivere nell’agape e nel servizio al prossimo
“Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri”.
Galati 5,13
Questo versetto paolino ci parla della libertà quale scopo da perseguire e c’è un punto di partenza che è la chiamata a libertà. Non si tratta però di un contratto a chiamata: finito il lavoro o il progetto torni a casa, torni indietro in attesa di un’altra chiamata chissà da dove, chissà da chi. Non si tratta neanche di mettere in pausa la libertà e il perseguimento di tale scopo. Al massimo si tratta di una chiamata quale punto di partenza, di ritorno e ripartenza senza soluzione di continuità. Dio non stipula un contratto per la libertà, non la vincola a una serie di paletti giuridici e del diritto del lavoro o ancor meno a un mansionario. Egli non ci vincola, ma ci chiama, ci esorta. Dio rivolge un appello alla libertà. Ma quale libertà? Una che si esercita attraverso l’agape verso e nel servizio per il prossimo. Una libertà quindi che fa i conti con l’altra/o, anzi, che di queste dinamiche e in questi spazi relazionali vive e in essi si esprime. Spazi che, come altri, possono diventare molto scomodi e piccoli, costrittivi e limitanti. Luoghi stretti e aree circoscritte. Ecco: anche in questi spazi, luoghi e tempi, anzi forse proprio perché si è in essi, risuona ancora più forte e nel profondo questo appello, questa chiamata alla libertà della e nella propria vocazione. C’è una paradossale relazione tra la libertà e la costrizione; l’accesso alla prima passa anche e non poche volte attraverso un’angusta, che è sinonimo di angoscia, porta. Tuttavia, per l’apostolo amore e servizio non sono sinonimi di asservimento, non sono una nuova catena, prigione o deterrente di libertà. Al contrario è nell’amore e nel servizio che si incontra lo spazio-tempo per esercitare e vivere quali donne e uomini chiamati a libertà, a servire alla libertà degli altri.