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Dimorare insieme in Gesù

Il sermone della moderatora Trotta in occasione del culto di apertura dell’Assemblea generale della Cevaa

Riportiamo, nella sua versione integrale, il sermone tenuto della moderatora della Tavola Valdese, Alessandra Trotta, in occasione del culto di apertura dell’Assemblea generale della Cevaa, Comunità di chiese in missione:

Giovanni 15, 1-11

Cari fratelli, care sorelle, che gioia potersi incontrare per lodare insieme, per incoraggiarci reciprocamente nell’impegno di coerente testimonianza dell’Evangelo e per riflettere su come rafforzare la collaborazione per una comune missione nel mondo di oggi! 

Il testo biblico del Vangelo di Giovanni che è stato scelto come ideale filo conduttore e fonte di ispirazione per i lavori di questa Assemblea generale ci fa giungere parole potenti di incoraggiamento e di orientamento, quelle rivolte da Gesù ai suoi discepoli nel momento cruciale in cui sta per essere consegnato a coloro che lo porteranno a morire sulla croce. 

Gesù rivolge ai suoi discepoli un lungo ed intenso discorso, un discorso con cui si preoccupa di rassicurarli, istruendoli su come va vissuto il tempo della sua assenza, sostenuti dallo Spirito che stanno per ricevere. 

Un discorso come quello dei professori agli studenti alla fine di un ciclo di studi, come quello dei genitori ai figli che si apprestano a lasciare la casa per iniziare una vita autonoma; con cui, insieme ad avvertimenti e consigli, Gesù vuole trasmettere l’incoraggiamento e la fiducia necessarie per potere continuare a camminare nel mondo, per tutto il tempo (che il Signore soltanto conosce) necessario alla piena manifestazione del suo Regno.

Gesù vuole rassicurare anche noi oggi, insegnando come vivere nel mondo da discepoli fedeli in assenza del maestro; credo, però, che due disturbi, due pensieri per niente rassicuranti, potrebbero raggiungerci dai versetti che oggi abbiamo riascoltato. Due sassolini nelle scarpe che forse non ci mettono a nostro agio e che è bene affrontare, per potere camminare con più serenità e scioltezza.

Il primo. Non siamo sempre a nostro agio, almeno non in queste latitudini, con il pensiero dei frutti che naturalmente, inesorabilmente dovrebbero scaturire dal discepolato e che dovrebbero mostrare la qualità della fede e dell’azione missionaria dei discepoli.

Fra le esperienze che ricordo con più disagio dei miei anni di servizio come diacona impegnata nella direzione di un grande Centro Diaconale a Palermo impegnato in vari servizi sociali per minori, famiglie e soggetti vulnerabili, vi è quella delle domande finali che spesso giungevano da gruppi in visita composti da fratelli e sorelle appartenenti a chiese o ad altre organizzazione cristiane, per lo più in altre parti del mondo: “quanti bambini poveri avete salvato?”, “come misurate i risultati della vostra azione sulla vita dei disabili, dei migranti, dei senza tetto di cui vi prende cura?” e così via.

Ed in ambito ecclesiastico, quante volte ho sentito collegare il tema del successo della predicazione della Chiesa, in parole ed opere, alla crescita numerica delle comunità, al confronto acritico con la realtà di quelle chiese che attraggono masse di fedeli, mentre le nostre chiese sembrano mancare i passaggi di trasmissione intergenerazionale e, anche quando non decrescono, presentano tessuti comunitari sempre più complessi, sfaldati e fragili.

Ebbene, credo che il nostro testo ci chieda di fare un primo passo nel cammino di incoraggiamento ed orientamento che ci propone, non cadendo nella trappola di concentrare subito l’attenzione sui frutti (immaginati, programmati, attesi), laddove il discorso di Gesù è incentrato su un unico imperativo che non ha a che fare primariamente con il fare, ma con il restare, con il dimorare in Gesù, con il rimanere nel suo amore. I discepoli non sono invitati innanzitutto a conseguire un fine, ma a rimanere fedeli al rapporto intimo con Gesù e a vivere in quel rapporto l’interezza e pienezza delle dimensioni della vita. 

Il secondo sottile disturbo, quasi un rumore di sottofondo, è rappresentato dall’ammonimento di Gesù che dice: “senza di me non potete fare nulla”. Rileggendolo in positivo, l’apostolo Paolo ricorderà ai Filippesi che in Cristo ogni cosa è possibile (Filippesi 4,13).

Ma come, il mondo è pieno di soggetti che prosperano ed hanno successo senza in alcun modo seguire, anzi ponendosi in evidente, aperto contrasto con il messaggio di Gesù ed i comandamenti di Dio! Molti soggetti sbandierano con arroganza i loro successi di ricchezza, di potere, di forza, anche sbeffeggiando, da cristiani, quella che giudicano come la debolezza di una parte del cristianesimo al tramonto.

Anche rispetto a questo secondo disturbo il nostro testo ci fornisce un tassello da fissare per proseguire nel nostro cammino di discepolato: è vero, molte realizzazioni umane sono possibili anche senza Gesù, ma senza Gesù non si può disporre del rapporto con Dio. Il nostro testo denuncia come pericolosa deviazione, la tentazione di una gestione del rapporto con Dio che non passi da Gesù. 

Senza passare da Gesù, anche le più ambiziose, arroganti realizzazioni non sono riconoscibili come compiute nel suo nome, non sono tali da rendere gloria al Dio in quanto rispondenti ad una adeguata comprensione della sua volontà. 

È significativa la trasformazione dell’immagine della vigna operata da Gesù all’inizio del nostro testo. Nelle molte immagini riportate dall’Antico Testamento, ad esempio nei libri dei profeti Isaia e Geremia, certamente presenti nella mente dei discepoli che ascoltano Gesù, la vigna dell’Eterno è la casa d’Israele, piantata con amore da Dio come vigna fruttuosa, ma diventata guasta. Il Signore si aspettava rettitudine e giustizia ed invece vi sono state oppressione e grida d’angoscia (Ger. 2, 21; Is. 5,7).

Ma Gesù dice “Io sono la vera vite”: attenzione, nessun nuovo popolo di Dio viene a prendere il posto della casa d’Israele come vite della vigna del Signore. Gesù stesso è ora la vite: nessun gruppo di fedeli, nessuna chiesa, nessuna comunità di fede si arroghi più il ruolo di vendicatori della fede, di difensori di Dio, di mediatori dell’accesso al sacro, di dominatori del mondo per conto di Dio.

Per i tralci di questa unica, vera vite, il confine fra vita e morte, fra sterilità e fecondità, fra unione e divisione sta nel dimorare in Gesù, nel trarre la ragione ed il nutrimento dell’esistenza nell’agape di Cristo, un amore produttivo, liberato del non essenziale, ridotto a ciò che veramente conta, da cui non si può svicolare, nella concretezza delle situazioni della vita, di fronte a compagni di umanità mai ridotti a categorie astratte. 

Dimorare in Gesù, vera vite: è imparare a credere che ciò che Gesù ha detto, fatto e promesso nella sua vita vale ancora e sempre; a comprendere il significato della croce nella sua potenza critica e della sua resurrezione come forza di rinnovamento e trasformazione al di là di ogni barriera umana e di ogni assoluto umano; a non vergognarsi di percorrere le sue strade, di camminare come lui camminava; di incontrare come lui incontrava, di ripetere le sue parole perchè giungano comprensibili e significative a tutti e tutte; di scegliere le sue priorità capovolte rispetto a quelle indicate dalle logiche del mondo, le priorità del Dio che  sceglie le cose piccole e deboli per svergognare le grandi e forti.

Significa obbedire ai suoi comandamenti, sapientemente riassunti nel comandamento di amore senza confini, non per paura o per dovere, non per conformismo o per tradizione, ma per fiducia: una fede non cieca ma intelligente, perché basata su ciò che Gesù ha fatto conoscere delle cose del Padre, di come è fatto il suo Regno, di chi lo abita. 

Senza questo radicamento, senza l’alimento del rapporto vitale con la Parola di Dio fattasi carne, senza lo sguardo costantemente puntato sul volto di Cristo, il tralcio non ha più alimento e si secca, si stacca dalla storia dell’opera di salvezza di Dio nel mondo. Ma Gesù ci ricorda che è Dio stesso pota la sua vigna, chiamandoci a sottrarci ad un’altra tentazione, quella di fare noi pulizia, eliminando ciò che non ci piace, che non riteniamo conforme. 

Con questo radicamento, nessuna idea sbagliata di successo ed insuccesso, nessuna ansia di prestazione, nessuna delusione o paura di fronte alla precarietà della vita, nessuna ridicolizzazione, nessuna marginalizzazione può distoglierci dalla missione di essere promotori di vita, di relazioni giuste, di solidarietà, di condivisione ed accoglienza; di fronte ai portatori di una cultura di morte, isolamento, divisione, sopraffazione, esclusione, violenza.

Credo che mai come in questo tempo, fratelli e sorelle, abbiamo bisogno gli uni degli altri, chiese del nord e del sud del mondo, chiese piccole e grandi, ricche e povere, chiese giovani (con il carico della freschezza vitale della scoperta della gioia della nuova nascita in Cristo) e vecchie (con il fardello, ma anche la saggezza e la forza che nascono dall’avere sperimentato ed essere sopravvissuti senza perdere la fede agli orrori della Storia, anche cristiana); abbiamo bisogno gli uni degli altri per assicurare che ogni tralcio della vite dimori nella pienezza delle cose di Dio che Cristo ha fatto conoscere. 

Abbiamo bisogno gli uni degli altri, per comprendere – in una visione integrata delle cose del mondo, colte da diverse prospettive – cosa voglia dire concretamente dimorare in Cristo, sottraendosi alle suggestioni di chi, proprio nel nome di un Cristianesimo finalmente trionfante, rivendica la rivincita di Dio nel determinare le politiche di uno Stato; giustifica razzismi e suprematismi che mortificano l’umanità non conforme; promuove guerre sante e nazionalismi violenti. Abbiamo bisogno gli uni degli altri per dire di no a nuove crociate, ad una nuova Inquisizione, a nuove guerre di religione.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri per smascherare i neo colonialismi del Nord del mondo che si camuffano da benefattori dello sviluppo delle parti più povere e sfruttate della terra, di cui depredano risorse e ricchezze a proprio uso e consumo, accrescendo sempre di più le diseguaglianze; ma anche le dinamiche di potere che si possono annidare nelle missioni del Sud del mondo, quando sembrano riprodurre logiche di dominio, invece che logiche di servizio. Un’appropriazione del centro da parte di chi vi arriva dalle periferie del mondo, invece che una messa in discussione delle categorie stesse di centro e periferia.

Senza Gesù nessuno di noi può fare nulla. Nulla di ciò che glorifica veramente Dio.

Solo dimorando insieme in Gesù, fratelli e sorelle, possiamo invece imparare a chiedere nel suo nome,  con la sua mente ed il suo cuore,  ciò che conta:  “sia fatta la tua volontà; venga il tuo Regno”; e scoprire di essere stati attrezzati per camminare nel mondo senza paura, rispondendo alla nostra vocazione e portando, anche in tempi difficili e scivolosi come quelli che stiamo vivendo, il frutto dello Spirito che, come ci insegna l’apostolo Paolo, è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.

Voglia il Signore che la Cevaa possa essere uno spazio aperto ed accogliente in cui vivere l’esperienza allargata del dimorare in Gesù, crescendo come comunità in cui tralci diversi della stessa unica, vera vite possano prosperare ed agire insieme, con umiltà e passione evangelica, per portare molto frutto alla sola gloria di Dio. 

Amen!

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