Il 12 e 13 novembre si sono svolti a Budapest i lavori del Sinodo della Chiesa riformata di Ungheria, una grande chiesa che conta circa due milioni di membri. La Chiesa valdese è stata rappresentata dal pastore Gregorio Plescan che ci ha inviato le sue riflessioni e impressioni sull’evento.
È stato un appuntamento particolarmente stimolante perché legato a due anniversari impegnativi dal punto di vista storico: cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale e venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino e dal successivo sfaldamento del “socialismo reale”. Il Sinodo ha posto l’accento soprattutto sul secondo anniversario, sebbene la “grande guerra” sia sempre rimasta sullo sfondo, come un passato che fatica ad affievolirsi.
Tra il 1945 e il 1989 l’Ungheria – assieme agli Stati dell’Europa centrale e orientale – è stata governata da un regime di tipo sovietico, il cui progetto, costringendo in uno schema totalitario tutte le componenti della società (chiese comprese), mirava alla riorganizzazione globale del mondo. Il rapporto tra Stato e Chiese ha subito delle evoluzioni: da una fase di controllo aggressivo della chiesa si è passati a un atteggiamento di tolleranza sospettosa. Un problema che le chiese hanno dovuto affrontare e che è ancora doloroso riguarda diverse forme di collaborazione/collaborazionismo che si sono verificate tra lo Stato socialista e la comunità cristiana.
Dopo un quarto di secolo la Chiesa riformata ungherese ha presentato i lavori di una commissione sinodale istituita ad hoc che, più che esprimere un giudizio sulle persone coinvolte (peraltro ormai tutte anziane e “fuori dai giochi”), ha offerto alcune piste di riflessione che possono superare i confini magiari. Fino a che punto una struttura ecclesiastica che dispone di scuole, ospedali, proprietà terriere riesce a reggere all’impatto di un’economia completamente non-costantiniana, che le rifiuta ogni appoggio finanziario? Fino a che punto possiamo comprendere sensazioni ed emozioni delle generazioni che ci hanno preceduto, dato che non possiamo ignorare che i grandi movimenti del ‘900 hanno parlato molto più alle “pance” delle genti, nel bene e nel male, che alle loro menti? Qual è il legame tra memoria personale del passato ed emozioni che quest’ultimo suscita?
Questi punti – peraltro molto stimolanti se si guarda a ogni storia complessa – qui sono ancor più esasperati dal fatto che la percezione che gli ungheresi hanno del loro territorio nazionale (e della loro chiesa) non corrispondono a quelli dell’Ungheria attuale: il mondo ungherese precedente al 1914 era molto più vasto e il trattato di pace siglato nel palazzo di Trianon, che smembrò l’impero austro-ungarico, amputò (dal punto di vista ungherese) migliaia di chilometri quadrati e decine di migliaia di abitanti, in favore di Yugoslavia, Romania, Cecoslovacchia ed Urss – a loro volta evolute poi in Croazia, Serbia, Slovacchia ed Ucraina. Anche il rapporto con questo passato complica il cammino di riconciliazione: approfondendo le analisi non si capisce mai bene fino a che punto il nemico del 1945-1989 fosse il socialismo totalitario oppure il fatto che quest’ultimo fosse imposto dalla nazione russa.
13 novembre 2014