Caro papa Francesco, caro fratello in Cristo,
mi permetta di accoglierLa in questo tempio rivolgendomi a Lei con questa espressione dei primi credenti che seguirono Gesù diventando i suoi discepoli e i suoi apostoli. Rivolgendoci a Lei come il fratello in Cristo Francesco, noi riconosciamo la nostra comune condizione di figli di quel Dio che è “al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Efesini 4,6).
I valdesi del ramo italiano, da me rappresentati, e i metodisti – qui rappresentati dalla presidente Alessandra Trotta – e i rappresentanti delle Chiese evangeliche sorelle luterane, battiste, avventiste, salutiste, La accolgono con gioia, avendo apprezzato molti discorsi e molti gesti che Lei ha compiuto sin dall’inizio del suo ministero.
Come Moderatore della Tavola valdese, voglio ringraziarLa in particolare per le parole di fraternità che Lei ha ripetutamente espresso nei confronti della nostra Chiesa.
Entrando in questo tempio, Lei ha varcato una soglia storica, quella di un muro alzatosi oltre otto secoli fa quando il movimento valdese fu accusato di eresia e scomunicato dalla Chiesa romana.
Qual era il peccato dei valdesi? Quello di essere un movimento di evangelizzazione popolare svolto da laici, mediante una predicazione itinerante tratta dalla Bibbia, letta e spiegata nella lingua del popolo.
Da oltre otto secoli, attraverso una storia a lungo segnata da varie forme di persecuzione e quindi scritta anche col sangue di molti martiri, non abbiamo voluto essere altro che una comunità di fede cristiana al servizio della parola di Dio e della libertà del suo annuncio.
Oggi, come nel Medioevo e nei secoli successivi, il nostro programma è: libere praedicare, «predicare nella libertà » l’Evangelo di Cristo. E’ questa l’unica ragion d’essere della Chiesa valdese.
Questa libera predicazione dell’Evangelo di Cristo avviene oggi in un’Italia largamente secolarizzata, ma almeno avviene in un contesto sempre più ecumenico grazie all’impegno e all’apertura spirituale di evangelici e cattolici, come questa Sua visita dimostra in modo eloquente.
A questo proposito, abbiamo letto nella Sua «Esortazione apostolica» Evangelii gaudium due affermazioni sul modo di intendere e vivere l’ecumenismo che siamo lieti di poter condividere.
La prima riguarda la visione dell’unità cristiana come «diversità riconciliata» che Lei propone (n. 230), e che è la stessa che l’ottava Assemblea mondiale della Federazione Luterana riunita a Curitiba (Brasile) proponeva nel 1990.
Crediamo anche noi che l’unità cristiana possa e debba essere concepita proprio così: come «diversità riconciliata», in cui occorre sottolineare sia la parola «diversità », sia l’esigenza che sia «riconciliata».
La seconda affermazione riguarda i rapporti tra le diverse chiese cristiane. Lei scrive: «Sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi» (n. 246).
È molto bello questo pensiero di cercare nelle chiese diverse dalla nostra non i difetti e le mancanze – che indubbiamente ci sono – ma ciò che lo Spirito Santo vi ha seminato «come un dono anche per noi».
Proprio questo è l’ecumenismo: la fine dell’autosufficienza delle chiese; ogni chiesa ha bisogno delle altre per realizzare la propria vocazione. Non possiamo essere cristiani da soli.
Ma proprio perché è così, riteniamo che i rapporti tra la Chiesa valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi) e la Chiesa cattolica romana, che già hanno prodotto buoni frutti in diversi ambiti – ricordo solo la traduzione interconfessionale della Bibbia in lingua corrente (TILC), la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la collaborazione a livello di facoltà teologiche, il testo comune tra CEI e valdesi e metodisti sui matrimoni interconfessionali, la collaborazione alla stesura della Carta Ecumenica, fino al documento comune cattolici-evangelici-ortodossi per contrastare la violenza contro le donne che abbiamo sottoscritto insieme il 9 marzo scorso – ecco, questi buoni frutti possano essere ulteriormente migliorati e incrementati, nei modi che potremo cercare e stabilire insieme.
Dovremo affrontare, però, anche questioni teologiche tuttora aperte.
E poiché ci è data oggi questa bella occasione di incontro e di dialogo, vorrei proporne almeno due che ci stanno particolarmente a cuore.
La prima è questa: il concilio Vaticano II ha parlato delle chiese evangeliche come di «comunità ecclesiali». A essere sinceri, non abbiamo mai capito bene che cosa significhi questa espressione: una chiesa a metà ? Una chiesa non chiesa? Conosciamo le ragioni che hanno spinto il Concilio a adottare quell’espressione, ma riteniamo che essa possa e debba essere superata. Sarebbe bello se questo accadesse nel 2017 (o anche prima!), quando ricorderemo i 500 anni della Riforma protestante. È nostra umile ma profonda convinzione che siamo Chiesa: certo peccatrice, semper reformanda, pellegrina che, come l’apostolo Paolo, non ha ancora raggiunto la mèta (Filippesi 3,14), ma chiesa, chiesa di Gesù Cristo, da Lui convocata, giudicata e salvata, che vive della sua grazia e per la sua gloria.
La seconda questione, che sappiamo quanto sia delicata, è quella dell’ospitalità eucaristica. Tra le cose che abbiamo in comune ci sono il pane e il vino della Cena e le parole che Gesù ha pronunciato in quella occasione. Le interpretazioni di quelle parole sono diverse tra le chiese e all’interno di ciascuna di esse.
Ma ciò che unisce i cristiani raccolti intorno alla mensa di Gesù sono il pane e il vino che Egli ci offre e le Sue parole, non le nostre interpretazioni che non fanno parte dell’Evangelo.
Sarebbe bello se anche in vista del 2017 le nostre chiese affrontassero insieme questo tema.
In questa giornata, però, non possiamo dimenticare le sofferenze del mondo e le sfide che il mondo pone alle nostre chiese.
Anche su questo piano abbiamo in atto importanti collaborazioni che possono crescere ulteriormente.
Per esempio nel campo della libertà di religione e di coscienza.
Proprio per la nostra storia di minoranza “eretica” prima, “tollerata” poi, “ammessa” successivamente e finalmente “riconosciuta”, noi avvertiamo una forte responsabilità nei confronti di chi ancora oggi – in varie aree del mondo ma anche in Europa e in Italia – è discriminato o perseguitato a causa della sua fede, sia egli cristiano o di altre fedi – per noi non fa differenza – perché, affermando il valore della libertà della coscienza, riteniamo che chiunque debba essere libero e libera di credere secondo la sua ispirazione, così come debba essere libero e libera di non credere o di credere in forme non convenzionali.
Un altro campo sul quale i cristiani e le cristiane dovrebbero impegnarsi con più forza e unità è quello del dialogo interreligioso.
Oggi il mondo è attraversato da guerre che spesso si combattono “nel nome di Dio”. Questa pretesa blasfema di una religione ridotta a ideologia di violenza e di vendetta scuote la nostra coscienza e ci impone di perseguire con determinazione – come Lei tante volte ha fatto – un’altra strada: quella del dialogo tra uomini e donne che, confessando l’unico Dio, non possono condividere parole e gesti di offesa, oltraggio e violenza nei confronti di altri credenti e di altri essere umani, e che invece insieme riescono a tracciare e percorrere strade diverse, strade di pace.
Per noi cristiani – cattolici, protestanti, ortodossi – il richiamo a essere “operatori e operatrici di pace” non è un ornamento retorico della nostra fede ma il cuore della legge dell’amore e della riconciliazione voluta da Gesù Cristo.
E parlando di amore e riconciliazione, caro fratello in Cristo Francesco, sento di dover cogliere questa occasione per richiamare l’urgenza di proseguire e intensificare la testimonianza – talora comune ed ecumenicamente ispirata – a favore dei profughi che bussano alla nostra porta.
La “fortezza Europa” li respinge rigettandoli nell’abisso di sofferenze, persecuzioni e dolore da cui fuggono; ma la legge che il Signore afferma ci impone di accogliere lo straniero, l’orfano e la vedova; e l’Evangelo che noi predichiamo dalle nostre chiese e dai nostri pulpiti ci invita ad aprire la porta della nostra casa, a dare da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete perché solo accogliendo chi soffre si può accogliere Cristo.
L’ecumenismo cresce anche nel servizio (diakonìa) e in una predicazione comune che scuota i cuori e le coscienze di chi pensa di risolvere il dramma sociale e umanitario che investe grandi regioni del mondo alzando altri muri, bombardando dei barconi o pattugliando il Mediterraneo con mezzi militari.
E termino.
Chiudendo quest’anno la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, nella basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, Lei ha affermato: “L’unità dei cristiani non sarà il frutto di raffinate discussioni teoriche nelle quali ciascuno tenterà di convincere l’altro della fondatezza delle proprie opinioni. Verrà il Figlio dell’Uomo e ci troverà ancora nelle discussioni. Dobbiamo riconoscere che per giungere alla profondità del mistero di Dio abbiamo bisogno gli uni degli altri, di incontrarci e di confrontarci sotto la guida dello Spirito Santo, che armonizza le diversità e supera i conflitti”.
Condividiamo queste sue parole. Secoli di confronto e dibattito non hanno appianato, purtroppo, divergenze teologiche che in larga misura hanno resistito nel tempo. Eppure oggi siamo qui a riconoscerci come figli del Padre, fratelli in Cristo, gli uni e gli altri animati dalla forza dello Spirito Santo.
Di fronte a noi c’è un mondo inquieto, sofferente, carico di tensioni; un mondo sovraccarico di parole mute, sterili, vane.
In questo mondo, noi cristiani siamo chiamati a dire la Parola della verità e della vita, una parola che non ritorna invano ma che cambia i cuori e le menti.
Annunciare questa Parola è la nostra fatica e la nostra gioia di sorelle e fratelli in Cristo.
Ed è il nostro vero mandato ecumenico, caro fratello Francesco: quello che ci chiama all’unità anche e soprattutto nell’annuncio della Parola “perché il mondo creda” (Giovanni 17,21).
Caro papa Francesco, grazie per essere tra noi e con noi.
Dio illumini e benedica il Suo servizio.
Torino, 22 giugno 2015