«Dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo sottrasse ai loro sguardi. E come essi avevano gli occhi fissi al cielo, mentre egli se ne andava, due uomini in vesti bianche si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo”».
Non è raro che Luca, l’evangelista, racconti più di una volta la stessa storia. Lo fa spesso, soprattutto negli Atti. Paradigmatico, in questo senso, il triplo racconto della conversione di Paolo nei capitoli 9, 22 e 26. Il racconto dell’ascensione in cielo di Gesù si trova alla fine del Vangelo (Luca, 24, 50) e qui, proprio all’inizio del libro degli Atti. Questo brano fa da cerniera ai due scritti, li rende un unicum letterario e, allo stesso modo, ci ricorda che si tratta di due scritti diversi, che gli Atti sono il sequel di Luca e che l’ascensione è una sorta di “riassunto della puntata precedente”.
Gli Atti cominciano dove è finito il Vangelo e la stessa storia della nascente chiesa cristiana muove i primi passi da quell’evento. Ecco, “muovere i primi passi” mi pare proprio appropriato: i due racconti, infatti sono leggermente differenti. In Atti troviamo un particolare che nel brevissimo racconto lucano non c’è. Si tratta dei due uomini in vesti bianche che apostrofano i discepoli rimasti “incantati” a guardare il cielo dopo la partenza di Gesù. Se si rimane imbambolati, con gli occhi al cielo, la vita non ricomincerà e la vocazione rimarrà strozzata.
Una spiritualità che rimane fissa in cielo, imbambolata sulle cose di lassù, che non sa guardare al mondo e alla missione in esso, paiono dirci gli angeli del Signore, non serve a noi e non serve a Dio. Se la nascente chiesa cristiana fosse rimasta a guardare il cielo non avrebbe mai mosso i primi passi.