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di Erica Sfredda

"Voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento”.

Per il Signore un giorno è come mille anni e mille sono come un giorno: come è difficile comprendere il tempo del Signore! Noi che siamo sempre con l’orologio in mano, che abbiamo riempito fino all’inverosimile ogni minuto della nostra esistenza, come possiamo accogliere e prendere sul serio un’affermazione come questa? Il problema principale è che essa ci impone inevitabilmente di relativizzare tutta la nostra importanza e ci colloca nel tempo dell’attesa. Improvvisamente non siamo più il deus ex machina, colui o colei che ha il potere, ma siamo collocati fra coloro che aspettano, come durante l’Avvento, tempo di gioiosa sospensione che ci conduce a Betlemme ad osservare un piccolo bambino, indifeso e bisognoso di tutto.

Dobbiamo quindi imparare ad attendere: non dobbiamo sentirci come nella sala d’attesa del dentista, pieni di paura e preoccupazione, e neppure come quando siamo alla Posta, con impazienza e noia, o come se fossimo in treno, dove, per “ingannare l’attesa”, leggiamo, facciamo parole crociate, chiacchieriamo. L’attesa del Regno di Dio non va ingannata, ma vissuta, riempita di senso e di gioiosa aspettativa.