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di William Jourdan*

Si avvicina il 27 gennaio, scadenza fissa eppure non scontata. La Giornata della Memoria è entrata a far parte dei nostri calendari: è giusto che sia così, è giusto che quanto accadde nell’universo concentrazionario non sia considerato semplicemente come un’ombra della storia, un lontano ricordo di un passato che può essere messo nel ripostiglio. D’altro canto, fare memoria di una dimensione a tal punto tragica e drammatica, di eventi che hanno portato morte agli uni – i sommersi – e incubi e disperazione agli altri – i salvati – non è mai scontato: quando i testimoni vanno scomparendo, scompare spesso anche la volontà di soffermarsi a guardare verso l’abisso creato da altri esseri umani. Proprio il rarefarsi dei testimoni dell’olocausto (ma il discorso può valere anche per altri momenti della storia del XX secolo) rende il compito della memoria ancora più importante: contro l’oblio che appiattisce ogni cosa e fa apparire come normali o non particolarmente gravi alcuni gesti o segnali che richiamano ideologie del secolo passato, la Giornata della Memoria è anche e sempre l’invito – oltre che l’impegno – a non sottovalutare il rischio che quanto è accaduto alla metà del secolo scorso possa riproporsi. Certo, questo invito e impegno non si vive in una singola giornata dell’anno; dovrebbe piuttosto accompagnare il nostro cammino quotidiano, un po’ come le pietre d’inciampo, presenti in molti luoghi anche nel nostro paese, accompagnano i nostri passi quando ci muoviamo per le strade. E dovrebbe coinvolgere tutti gli attori della società: non soltanto i decisori politici, ma anche i semplici cittadini, non soltanto i rappresentanti delle religioni ma le comunità di fede nel loro complesso. Inserire questa memoria nel quadro di un dialogo che coinvolga le diverse religioni, allo scopo di una maggiore comprensione reciproca: non si tratta di un’idea particolarmente originale, ma ancora troppo poco praticata.

È tuttavia evidente che la Giornata della Memoria di quest’anno si celebra in un quadro internazionale particolarmente complicato. Sarebbe presuntuoso voler esprimere giudizi ultimativi o anche solo analisi presuntamente accurate, ma sarebbe ottuso fingere che la questione non esista. Non si può negare, in alcun caso, che in questo momento, una tensione emotiva particolarmente forte accompagni la valutazione del conflitto israelo-palestinese e che questa emotività si rifletta anche sul significato del 27 gennaio. È sufficiente ripercorrere qualche quotidiano degli ultimi giorni per vedere la diversità di posizioni. E i giornali, lo sappiamo, sono lo specchio di quella realtà ancora più complessa che è quella nella quale anche noi siamo immersi. Nessuno di noi è indifferente o può permettersi di giustificare quanto accaduto il 7 ottobre scorso: le uccisioni, i rapimenti, gli stupri avvenuti sono una ferita inflitta a tutta l’umanità. Nessuno di noi è indifferente e può considerare sensato quanto accade a Gaza: le numerosissime morti tra i civili, le macerie che si accumulano, la sofferenza dei bambini nati sotto le bombe sono una ferita inflitta a tutta l’umanità. Negare tutto ciò o dire qualcosa di meno non ci farebbe onore, anche se sui singoli aspetti potranno esservi e vi saranno interpretazioni e posizioni differenti.

Il 27 gennaio si avvicina e noi vivremo questa Giornata con questa sofferenza nel cuore. La sofferenza che ci ricorda che esiste un’umanità che non è riconciliata, che preferisce il conflitto alla pace costruita con giustizia. La sofferenza di chi si sente impotente, privo di parole che possano dare un senso a quanto accade. Eppure, se questa sofferenza ci impedisse di fare memoria per quanti sono stati annientati dalla follia umana a nulla varrebbe affrontare questo dolore. Dedichiamo quindi il 27 gennaio ad affermare con forza l’impegno contro ogni antisemitismo, riconoscendo che il conflitto in corso si pone su un piano differente della questione. Forse, mantenendo i piani distinti potremo onorare l’uno e l’altro aspetto e non portarli in un conflitto che rischia di soffocare ogni buon senso.

*pastore e membro della Tavola Valdese