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di Ruggero Marchetti

«Allora si vedrà il Figlio dell'uomo venire sulle nuvole con grande potenza e gloria».

Il Signore verrà. Ma cosa sappiamo di questa venuta finale? Anzitutto sappiamo che è Gesù che viene, e non è poco. Alla fine della Bibbia c'è la grande invocazione: “Marana-tha. Vieni, Signore Gesù!” (Apocalisse 22,20). È l'ultima parola della chiesa apostolica, di tutte le generazioni cristiane e di ogni esistenza credente. Dal futuro non aspettiamo qualcosa, ma qualcuno; non l'ignoto, ma il Signore.

Ma chi annuncia la venuta del Figlio dell'uomo, è Gesù stesso, e questo vuole dire che colui che deve ancora venire, in realtà è già venuto. Questo è importante: significa che Gesù non è prigioniero del tempo come noi. Il nostro futuro, col trascorrere del tempo, diventa inesorabilmente passato, finché ad un certo punto rimaniamo senza futuro e diventiamo solo passato: moriamo infatti, e di noi si potrà solo parlare al passato. Non così di Gesù. Di lui si deve parlare al passato, al presente e al futuro. Il suo tempo non è come il nostro. Il tempo di Gesù viene e non passa.
Attendere questo tempo non significa attendere tempi migliori, ma nuovi. Più che la fine dei tempi, la venuta di Gesù comporterà la fine del nostro tempo e l'inizio del suo: un tempo vero e stabile, in cui non solo per Gesù ma anche per noi il futuro non diventerà più passato.

Ma come verrà il Signore? La Bibbia ne parla con immagini di cui occorre cogliere il senso. “Come il lampo esce da levante e si vede a ponente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo” (Matteo 24,27): sarà una venuta evidente e incontestabile. “Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte” (1 Tessalonicesi 5,2): sarà una venuta imprevista ed improvvisa. “Allora si vedrà il Figlio dell'uomo venire sulle nuvole”: sarà una venuta libera e sovrana.
Il Signore non verrà dalla terra, dal nostro piano, ma dal piano di Dio: questo è il senso dell'allusione alle nubi del cielo. La sua venuta non dipende dalle nostre realizzazioni né dai nostri fallimenti. Fra l'altro, la similitudine del fico a cui Marco 13 ricorre nel parlare della venuta del Signore: “Quando i suoi rami si fanno teneri e mettono le foglie voi sapete che l'estate è vicina”, ci fa appunto pensare al tempo estivo, in Israele il tempo del raccolto, del compimento della lunga attesa durata tutto l'inverno e la primavera...

C'è allora un evangelo del compimento, possiamo anche dire: un evangelo della fine, e non è una contraddizione in termini. Se non ci fosse questo evangelo, saremmo in balia dell'infinito che nella condizione in cui ci troviamo, avrebbe “un carattere di disperazione” (K. Barth). Infatti, una vita senza fine è una prospettiva allucinante. Ma è terribile anche la fine di una vita, la sua conclusione nella morte. C'è nell'essere umano un conflitto fra il desiderio e il timore della fine.  Insomma, non sfuggiamo a questa contraddizione: non ci sentiamo di accettare la prospettiva di una vita infinita e nemmeno la prospettiva della morte. Né l'una né l'altra sono evangelo. Ma c'è una fine della vita che non sia la morte? Il bambino di Betlemme è il Signore che ci dice: “Io sono l'Alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine” (Apocalisse 22,13). Gesù è l'evangelo della nascita, della vita e della fine della vita.