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di Gregorio Plescan

"Dio parlò a Noè: stabilisco il mio patto con voi e con tutti gli esseri viventi: nessun essere vivente sarà più sterminato dalle acque del diluvio e non ci sarà più diluvio per distruggere la terra. Ecco il segno del patto: Io pongo il mio arco nella nuvola e servirà di segno del patto fra me e la terra"


Per cogliere le suggestioni di questo racconto dobbiamo prendere due strade: una dietro di noi, l’altra dentro di noi. La strada che ci sta alle spalle ci conduce in un tempo lontano, in cui scienza e fisica erano semplicemente una maniera per risolvere temporaneamente problemi pratici, e non chiavi per spiegare il mondo nella sua globalità. L’arcobaleno era allora una sprazzo di divino reso improvvisamente palese. Dio era lì, senza dubbio: non tangibile, ma visibile, presente. 

La seconda strada da percorrere è dentro di noi: quella parte di noi in cui le spiegazioni chiare, oggettive, univoche si scontrano con le passioni forti, con le paure e le speranze che ci agitano. Non è uno scontro tra adulto o bambino, ma quello che si trova nel cuore di chi accoglie anche le risposte complesse alle domande vere, quando 2+2 può anche non fare 4. L’arcobaleno è l’elemento perfetto per parlare di Dio e di noi e Dio: uno spettro di colori allo stesso tempo intensi e sfumati l’uno nell’altro – singoli che si amplificano e completano quando si fondono l’uno nell’altro. Non per cercare Dio dentro di noi, ma per ascoltare le sensazioni che lo sguardo verso l'arcobaleno suscita in noi: l’ansia che può stingere nella serenità, la disperazione che evolve nella speranza e nello stupore del possibile. Dio che vince il desiderio distruttore, che si rassegna al fatto che il mondo non è mai in bianco e nero ma ha una gradazione di colori – come l’arcobaleno, appunto. Si va a Dio per paura di morire? Si va a Dio per paura di vivere? Né l’uno né l’altro: è Dio che viene e ci offre un patto.