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di Gabriele Bertin

“E preso un bambino, lo mise in mezzo a loro; poi lo prese in braccio e disse loro: «Chiunque riceve uno di questi bambini nel nome mio, riceve me; e chiunque riceve me, non riceve me, ma colui che mi ha mandato»”


Nel vangelo di Marco Gesù è presentato come colui che agendo insegna. Qui, infatti, il Maestro vuole far capire ai suoi l’umiltà del saper diventare piccoli e piccole. E per fare ciò, inserisce un elemento esterno, per ridefinire l’interno. Prendendo un bambino lo pone nel centro del cerchio di chi lo ascolta, ed invita a guardarlo con occhi diversi: non come qualcuno ancora troppo piccolo, inadatto a stare al centro e per tanto relegato al margine, ma proprio come ciò a cui bisogna ambire per ridefinire il proprio modo di abitare il centro. Questo piccolo, definito dalla maggioranza come elemento di disturbo e di scombinamento dell’ordine costituito, diviene in realtà il luogo teologico nel quale poter incontrare il volto, la parola e l’azione di Dio. Gesù non crea soltanto una breccia, ma ridefinisce l’azione del centro partendo da ciò che offre il margine, proponendo una nuova “pedagogia teologica”: in ciò che è scartato, ci invita a vedere un modo di essere che risponda al Dio che guida e custodisce ogni cosa. E per capire questo, però, c’è bisogno che l’insegnante sia qualcuno di nuovo e di inedito: come quel bambino, al quale non si deve esclusivamente spiegare le cose, ma dal quale si deve imparare la semplicità dell’essere immagine e somiglianza di Dio.