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di Giuseppina Bagnato

«Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si leverà sulla polvere. Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio»

Il libro di Giobbe è un libro di sfide per tutti si dice che si muova nel solco dei così detta “crisi” della Sapienza di Israele. Un lirismo che si snoda a ritmi incalzanti nel Salterio dei Salmi, nel Cantico dei Cantici, in Qoelet, Siracide e che si ritrova proprio dietro l’angolo la sfida peggiore: il momento in cui il credente deve fare i conti con il dolore e la sofferenza che vive e lo sommerge. A noi che viviamo quaggiù non resta che partire dal basso: seduti in mezzo alla cenere mentre grattiamo le nostre piaghe con un coccio come Giobbe.

Ma c’è una riflessione più matura e grande dietro questa testimonianza: una riflessione sulla ricostruzione.

Lo sguardo di chi crede nella Giustizia e nella legge del Creatore si oppone a quella del decreto umano di sfruttamento del mondo ed è certo che vedrà le benedizioni di Dio.

È qui che arriva la sfida per il credente: la prova della fede. Come leggiamo noi il male che giunge a toccare le nostre vite? Le voci esterne (gli amici di Giobbe nel libro) ci possono invitare a cercare la radice del nostro male dentro di noi, per estirparlo prima che infetti tutto. Le domande di Giobbe, le sue preghiere ed esternazioni sono più profonde, si contorcono nella carne: non accettano depistamenti perché solo Iddio potrà rispondere! È Iddio che Giobbe invoca e vuole vedere. Giobbe è il simbolo e il figlio del pensiero di quella generazione sopravvissuta alla perdita dei propri cari senza possibilità di congedo, un tempo di superamento dell’isolamento, dopo la deportazione in Babilonia. L’urlo di Giobbe è quello dei credenti le cui preghiere salgono verso Dio.

Oh, se le mie parole fossero scritte oh, se fossero incise in un libro;
se fossero scolpite per sempre su una roccia con ferro e piombo!
(versi 23-24)

Giobbe di Uz, un non ebreo che testimonia la sua fede in Dio a beneficio di una comunità sradicata e senza luogo. Chi scrive non è né profeta né sacerdote eppure diviene ambasciatore cosmopolita di una profezia che si insinua fra le piaghe di ogni generazione in sofferenza. La sapienza d’Israele non conosce confini etnici nel descrivere la potenza di Dio: Giobbe trasforma la sua confessione in una preghiera di certezza dell’intervento di Dio. Ecco la resurrezione che il suo cuore, le sue viscere attendono e che divengono articolo di fede.

«Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere» (Giobbe 42,5-6)