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di Davide Rostan

«Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?»

Quando si ritorna a casa dopo una crisi, nulla può essere più come prima, poiché quello che c’era prima è stato la causa principale del disastro. Dunque non basta avere seguito la visione della promessa del ritorno ma servono anche delle istruzioni per ricostruire. L’ultima parte del libro di Isaia parla proprio di questo: come ricreare una comunità umana che sia in grado di salvaguardare il creato e sia capace, al tempo stesso, di tenere conto del fatto che tutta la comunità va sfamata. Ci vogliono pensiero, innovazione, coraggio, tempo.

Al centro di questa ricostruzione c’è la questione dell’appartenenza e quindi del vero culto da rendere a Dio. Non vi è solo quindi una banale critica al formalismo di certe pratiche religiose nella parole di Isaia, ma viene espressa una verità più profonda che ci interroga e ci guida nella ricostruzione: il vero culto, ossia il vero digiuno e quindi la conoscenza di Dio passano dal  riconoscimento del prossimo. Un prossimo che viene oppresso, che è incatenato, che ha fame ed è infelice e senza una casa. Un prossimo dal quale non possiamo nasconderci.

Non si tratta però di limitarsi a sostituire il vecchio culto con un nuovo: quello del fare e dell’aiutare il prossimo. Credo che Isaia si spinga più in là e che infondo ci dica altro: Dio accade nell’agire, e in uno specifico modo di agire. Non nel pensiero e nemmeno nella pietà religiosa, perché Dio è in fondo una realtà relazionale che ci chiama all’obbedienza. Nell’obbedienza alla sua parola noi possiamo incontrarlo e conoscerlo.