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di Winfrid Pfannkuche

«Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio, dice il Signore».

Quante volte è stato abusato dell’amata immagine del pastore della pecora per legittimare il potere umano? Eppure non riusciamo a staccarci da questa immagine, nemmeno in tempi postmoderni o postcristiani. Anche il nostro testo, il padre dell’immagine nella nostra cultura, non ci riesce. Se n’è innamorato una volta e poi non la molla più. Tutto un capitolo, tutto quello che ha da dire lo dice con quest’immagine. Soltanto alla fine, l’ultimo versetto del capitolo, l'abbandona. Ecco, dove ci vuole portare la parola profetica: all’infuori di ogni immagine e immaginazione alla realtà del semplice essere umani.

È un percorso di creazione: all’inizio siamo interpellati come pastori. Come pastori infedeli che abusano del loro potere. Poi, nel corso del testo, questo potere viene smascherato e demolito. Dio stesso diventa pastore al posto nostro. E noi diventiamo pecore, il suo gregge. Alla fine siamo uomini ed egli è il nostro Dio. Alla fine siamo uomini e donne creati da Dio. Secondo la sua immagine: Cristo, il nostro buon pastore.

Dio non vuole che restiamo degli dèi solitari. Ma vuole che diventiamo degli uomini comunitari. Dio non vuole che restiamo degli dèi infelici. Ma vuole che diventiamo degli uomini felici. E finché non siamo felici noi, anch’egli non lo è.

L’immagine del pastore e del gregge è usato come denuncia dell’abuso di potere. Non legittima il potere umano. Ma lo distrugge. Facendosi Dio stesso pastore. Con l’immagine del pastore e del gregge il profeta denuncia la mancanza di umanità, la mancanza di cura, la mancanza d’amore per il prossimo.
Forse è per quello che quest’immagine non ha mai perso la sua forza creatrice, proprio oggi, in tempi di dispersione, di freddezza, di trascuratezza.