I link che seguono forniscono la collocazione della pagina attuale nella gerarchia di navigazione.

di Sabina Baral

Intervista al cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana

Torre Pellice, 16 Gennaio 2023

Dal 18 al 25 gennaio torna la consueta Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, un appuntamento ecumenico di grande rilevanza per protestanti, cattolici e ortodossi. Il tema di quest’anno è tratto da Isaia 1, 17: “Imparate a fare il bene, cercate la giustizia”. Con il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi, abbiamo parlato delle sfide che i cristiani si trovano a fronteggiare in questo nostro tempo.

In un'epoca segnata dal dominio della tecnica e del pensiero calcolante c'è ancora spazio per l'intelligenza della fede? E soprattutto: la realtà ha ancora bisogno di quell'intelligenza?

Il mondo attuale sembra farne a meno ma i surrogati del benessere spirituale a basso costo ci rivelano il contrario: quando non si crede più a niente si finisce col credere a tutto. Basta osservare la realtà, il crescente disagio psichico e relazionale, per capire che c’è una domanda spirituale profonda e drammatica. Dobbiamo ritrovare quella passione della fede delineata così bene da Benedetto XVI, fondata sull’intreccio tra cuore e ragione. Il Signore tiene uniti i due aspetti, oggi purtroppo c’è poca intelligenza e poco cuore perché se non si trova l’acqua che toglie ogni sete ci si accontenta di surrogati qualsiasi.

Come si fa a prendere sul serio le ferite del nostro prossimo?

Intanto sapendo stare di fronte al male, senza scappare. Dinnanzi al negativo noi tendiamo a reagire o con la spada oppure salvando noi stessi. Lo vediamo anche tra i discepoli: solo uno di loro, Giovanni, sente la particolarità dell’amore e rimane sotto la croce. Gli altri se ne vanno. È stato così anche durante la pandemia: facciamo fatica ad accettare il male, proviamo a capirlo solo quando ci ha già travolto e poi tendiamo a dimenticarcene una volta che non c’è più. Invece il male ha molto da insegnarci perché rivela cose importanti sulla nostra fragilità e ci fa sentire tutti sulla stessa barca. L’ottimismo vuoto che scaturisce da un benessere che ci ha stordito, e che noi interpretiamo come diritto acquisito, ci impedisce di vedere il male e anche il nostro prossimo.

Siamo ciechi di fronte alle periferie esistenziali del nostro tempo?

Quando parliamo del prossimo spesso pecchiamo di un eccesso di interpretazione. Prima di capire chi sia lo categorizziamo. In realtà non c’è nessuna categoria: il prossimo è il ferito della vita. Bisognerebbe rimettere al centro la compassione invece di pensarsi in maniera egocentrica. Il prossimo lo troviamo appena usciamo dal nostro individualismo, dalla nostra felicità un po’ drogata, quando non troviamo noi stessi da soli o usando il prossimo ma mettendo al centro l’altro che abbiamo di fronte. Oggi assistiamo a una crescente medicalizzazione dell’io, ci sono molti medici e pochi fratelli e sorelle. Diverse figure ci aiutano ad interpretare noi stessi ma pochi ci insegnano ad avvicinarci agli altri e a capire il senso di chi siamo veramente.

I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: quella di testimoniare il Dio vivente alla luce del messaggio di Cristo. Secondo lei sono ancora all'altezza di quel compito?

Sono chiamati ad esserlo. Il fatto è che si sentono già troppo grandi, c’è poca umiltà, mentre sono i piccoli a compiere cose grandi. In un tempo che ci rivolge costantemente una grande domanda spirituale (seppur con codici diversi rispetto a quelli del passato) e così segnato dallo scontro con il male, il cristiano non è colui che sa tutto e risolve ogni problema ma colui che testimonia la verità di Gesù con la sua stessa vita. Il cristiano non è l’onnisciente ma colui che trasmette il segreto, l’essenziale che i grandi non sanno cogliere ma che i piccoli capiscono e che nessuno ci può togliere. 

Avviato circa sessant'anni fa, il confronto fraterno tra cattolici, protestanti e ortodossi ha dato numerosi frutti. Molti, tuttavia, faticano ancora a riconoscere l'importanza di una comune professione di fede. Perché secondo lei?

Perché spesso scambiamo la passione per l’unità con regole di condominio e buona condotta. Ciascuno è preso dai problemi di casa propria e questo genera stanchezza e disillusione. La ricerca dell’unità deve tornare ad essere un bisogno autentico, un’ansia positiva, un desiderio per vincere lo scandalo della divisione, come fu dopo gli anni del Concilio.

Ricordo quando anni fa, ogni settimana, la Comunità di Sant’Egidio in cui sono cresciuto invitava a predicare il pastore valdese Valdo Vinay. Quella condivisione del pane e della Parola denotava una vera passione per l’ecumenismo ed era il contrario di ogni inerzia, consuetudine o apatia.

Come trovare parole vive che esprimano la bellezza del credere insieme?

Praticando il confronto intorno alla Parola per capire insieme cosa essa ci chieda, allargando questo dibattito anche alle comunità e non lasciandolo ai soli addetti ai lavori. E vivendo insieme esperienze di carità perché lavorare insieme facilita la conoscenza reciproca, ci fa avvertire maggiormente il bisogno gli uni degli altri. L’unità tra i cristiani può essere di grande aiuto nella lotta contro guerre e violenze che travolgono tutti. La ferita del male può rappresentare un motivo in più per crescere come credenti profondamente inquieti che provano a trovare risposte cristiane alle sfide del nostro tempo.