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di Roberto Davide Papini

Un sermone di Vittorio Subilia ci ricorda il nostro compito di cristiani

Torre Pellice, 20 Dicembre 2019

«Senza timore di esagerare, con la calma certezza di essere veri, si può dire che tutto l’Evangelo è riassunto, condensato in questa piccola parola...». Per Vittorio Subilia (pastore e teologo valdese) questa «piccola parola» così preziosa da racchiudere in sé tutto l’Evangelo è contenuta in Giovanni 1:11: «E’ venuto...».

Comincia così il sermone predicato da Subilia a Roma, durante il culto interdenominazionale di preparazione al Natale, nella chiesa battista di via Teatro Valle il 22 dicembre 1970. Un sermone dedicato, appunto, al Natale pubblicato sulla “Luce“ l’8 gennaio 1971 e inserito nella bella (ma purtroppo esaurita) raccolta di sermoni “La parola che brucia“ edita da Claudiana. 

Per Subilia, se non ci fosse quell’espressione «è venuto...» (ovviamente, riferita a Gesù,) l’intero Evangelo si disintegrerebbe: «Perché se non fosse venuto non avrebbe parlato, non avrebbe accompagnato con i suoi segni potenti il messaggio, non sarebbe stato crocifisso, non sarebbe risorto, non avrebbe promesso di tornare per mantenere tutte le promesse fatte durante la sua venuta». Quella che sembra una premessa ovvia (se non fosse venuto non avrebbe fatto questo o quello) è in realtà al centro del messaggio evangelico: «L’intero Evangelo non fa che ribadire, in un’infinita varietà di toni e di implicazioni, questo annuncio: “è venuto“».

Questa appassionata predicazione, in cui si ha a che fare con «la parola che brucia», ha dei riferimenti temporali e contingenti che sono legati all’epoca in cui è pronunciata, ma il nucleo fondamentale resta pienamente attuale e interroga la chiesa e ognuno di noi sulla nostra consapevolezza che «l’annuncio della sua venuta è più necessario, più vitale per il mondo dell’aria, della luce, del pane, della pace...».

Ecco perchè questo annuncio di Natale, lontano dalle atmosfere cariche di stereotipi consumistici e zuccherosi, è così fondamentale ed ecco perché il ruolo della chiesa (che deve essere per Subilia «un popolo di confessori della sua venuta») assume importanza. Tanto che «ogni volta che noi in un modo o nell’altro diciamo e trasmettiamo questo annuncio, adempiamo alla missione per cui siamo stati mandati», mentre «ogni volta che noi taciamo, o svalutiamo o cambiamo questo annuncio, perdiamo la nostra ragione di essere e aggiungiamo il contributo alla perdizione del mondo». Parole che caricano di responsabilità il nostro essere chiesa, comunità, singoli credenti. E, in fondo, sono parole che mettono anche un po’ di ansia, anche perché nell’esperienza di ognuno di noi e dei credenti di ogni epoca è ben chiaro che «quando la chiesa sa quello che crede e quello che predica, il risultato non è necessariamente la conversione del mondo, anzi ci sono tutte le probabilità che sia l’indurimento del cuore...». Esperienze che ci scoraggiano di fronte all’idea di riprovarci, di evangelizzare, di rendere testimonianza con un “annuncio esplicito” (per citare un atto sinodale di qualche anno fa). Subilia, però, ci libera da questa ansia. «La nostra consegna _dice il teologo e pastore valdese _non è interessarci dei risultati, i risultati non sono di nostra competenza. La nostra consegna è di annunciare con lucida coscienza che è venuto, nella certezza della necessità e dell’urgenza di questo annuncio. La nostra utilità o inutilità come cristiani nel mondo dipendono essenzialmente dal fatto che, nella nostra vita privata, nei nostri culti, nelle nostre opere, nelle nostre strutture, sui nostri giornali diciamo o non diciamo "è venuto”».

Solo così, dunque, il vangelo di Natale può essere davvero gioioso e carico di speranza come il finale del sermone di Subilia: «Perseverate e rallegratevi nella fede di Natale, nella fede in colui che è venuto: è l’unica cosa che conta».