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Il sermone del culto di apertura del Sinodo

Riportiamo qui di seguito la predicazione tenuta dal pastore Winfrid Pfannkuche in occasione del culto di apertura del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi che si è svolto domenica 22 agosto nel tempio di Torre Pellice


I CORINZI 12,31b; 13

Care sorelle e cari fratelli,

l’apostolo aveva appena parlato del corpo di Cristo. Eccolo qui. Nella gioia. Per Monica, una nuova diacona. E per Gabriele, un nuovo pastore. E per essere finalmente, in qualche modo, anche nuovo, insieme.

Certo, quel che conta non è il corpo, ma che è di Cristo. Conta l’essere di Cristo. Guai a fissarsi sul corpo, sulla chiesa. È la chiesa di Cristo. Noi cristiani parliamo troppo di chiesa, parliamo troppo di cristiani e di cristiane, e troppo poco di Cristo e con Cristo. Siamo troppo autoreferenziali. Siamo fissati su noi stessi. Sulla nostra immagine. Quel che conta non è il corpo, ma che sia di Cristo.

Attenzione però: tra i vari gruppi in conflitto fra di loro nella chiesa di Corinto c’era anche un gruppo che si diceva «di Cristo». Le formule giuste e pulite non ci salvano, dobbiamo scendere nella sostanza, mai avere paura di approfondire per evitare eventuali conflitti, approfondire perché nella profondità c’è l’amore di Dio.

Ora questo corpo di Cristo cammina. Il Sin-odo, il cammino condiviso, insieme. Ma anche qui non basta fissarsi (e in tal modo fermarsi) sull’essere insieme e sul camminare insieme. Quel che conta non è il nostro camminare, bensì la via sulla quale camminare insieme.

Ora l’apostolo ce la mostra, e la chiama la via per eccellenza. Non la chiama la via «giusta» o «la retta via» da buon pedagogo bacchettone. Ma la via per eccellenza, in greco iperbolen, l’iperbole, sì: la passione, l’entusiasmo, la bellezza, l’arte, la vitalità mediterranea. Non è solo una via giusta, retta, dritta, sobria, modesta, politicamente corretta. Neppure solo una via secondaria, provinciale, nascosta ai più, più per esperti, una nicchia, una via segreta fuori dal grande traffico. Mai può essere una scorciatoia o una circonvallazione. Ma la via per eccellenza. Sì, esiste un protestantesimo che non perde di vista la passione, la bellezza e l’arte, che non ignora di essere indirizzato alla via per eccellenza.

E poi segue l’inno all’amore. Ancora una volta dobbiamo cambiare l’immagine: dal corpo al cammino, e dal cammino al canto. Il Sin-odo diventa sin-tonia, sin-fonia. La musica, la nostra arte e la nostra bellezza preferite. Ritrovare l’armonia della coralità, delle diverse voci e strumenti che nei disaccordi ritrovano l’accordo, che ritrovano nell’inno all’amore l’altolà della loro esistenza. Certo, veramente non è un inno che si cantava, ma un testo d’istruzione. Un testo d’istruzione che ci insegna anche in che modo istruire. Non è un libretto d’istruzioni, la nostra chiesa non è un libretto d’istruzioni di 100 pagine in venti lingue diverse. La chiesa, con tutte le sue stonature, è un inno. Ma anche qui vale: non è il nostro cantare, non è l’inno, ma quel che conta è l’amore.

Tre sono le strofe di quest’inno. Qui siamo alle prove per cantarle insieme. Ci vogliono prove, anche un duro e faticoso lavoro, non vien da sé, anche se conosciamo bene l’inno, anche se l’abbiamo sempre cantato, predicato e amato.

Ecco, la prima strofa:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente.

Diventa immediatamente il canto del Sinodo delle nostre chiese: avessi una forte spiritualità, avessi una vita di preghiera intensa! Avessi una predicazione profetica, una teologia chiara e una salda fede! Avessi una diaconia che incide, persone che si impegnano fino in fondo, testimoni autentici fino al martirio! Senza se e senza ma. Andassero tutti questi doni d’accordo fra loro, camminassero davvero insieme, senza dover stabilire chi è il più grande fra loro! Guai a chi punta su un solo dono, peggio: sul proprio dono, in trincea contro altri doni. Dal tenore: ci vuole più spiritualità! e spara sulla teologia; ci vuole più predicazione! e spara sulla diaconia; ci vuole più diaconia! e spara su tutti; ci vuole più impegno! e spara sulla fede, ci vuole più fede! e spara sull’impegno.

Mi metto nei panni di Monica e Gabriele (che sono panni simili ai miei): devo avere una forte spiritualità e preghiera, una buona conoscenza e una robusta teologia, una fede incrollabile, impegno fino in fondo e, alla fine, devo dare la mia vita in sacrificio per la causa. Devo avere tutti quei doni e devono andare d’accordo fra loro, sintonizzarsi nel mio ministero. Povero me, povera me! E povera chiesa!

È bene sapere che da alcune discipline delle prime chiese risulta che persone eccellenti che hanno sfiorato il martirio avevano il divieto di predicare. È bene sapere che predicavano persone come Saulo, forte con la penna, debole «in presenza». È bene sapere che una sola cosa conta, per non perderti nelle infinite aspettative, soprattutto in quelle del tuo proprio ingombrante e impietoso io. L’amore. E tutte quelle cose vi saranno date in più. Ma appunto date, e non messe in scena. Eccellenti non siamo noi, non eccelliamo né siamo Eccellenze, la via, e solo la via, è quella per eccellenza.

Questa prima strofa è un tipico testo di una scala di valori. Grandi valori vengono elencati, dalla spiritualità al martirio. Ma una sola è la priorità. Qui si stabilisce la priorità. Il primo comandamento. Lo sh’ma jisrael. Ecco: l’inno all’amore è il nostro sh’ma jisrael. Ristabilire la priorità, quotidianamente, ogni giorno. L’agàpe, l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. In questa priorità ci ritroviamo tutti. E non ci perdiamo per vie non meglio definite.

Paolo riesce a dire queste cose non solo dell’amore, ma anche con amore. Non solo ci istruisce, ma ci insegna anche come istruire. Dire a quei corinzi che sono dei montati, gonfiati che rischiano di soccombere nel proprio io pieno di doni, valori e buona volontà, dire a loro di non essere buoni a nulla, con parole che sono diventate uno dei pezzi più belli della letteratura universale. Questa è la bellezza, la musica, l’arte apostolica della nostra predicazione. E qui siamo per imparare insieme quest’arte del dire la verità con amore, e di comunicare l’amore con verità.

La seconda strofa è il centro, il cuore dell’inno, dell’istruzione. Ora il soggetto è l’amore. Ora l’amore diventa un soggetto, una persona che prende in mano la situazione, che prende in mano la nostra esistenza, il nostro ministero, le nostre chiese. 16 volte amore. Solo all’inizio e alla fine, l’apostolo pronuncia la parola amore, agàpe. In mezzo: l’amore c’è, comanda, come se non ci fosse. Si apre uno spazio per noi in questo amore, in questo inno all’amore. E qui facciamo quel che piace a tanti: una piccola «animazione» che ci mette letteralmente in gioco: immetti in questa parola amore ciò che ami veramente. Se sono sincero, ciò che amo veramente è anzitutto me stesso. Sentiamo come suona:

Io sono paziente, io sono benevolo; io non invidio; io non mi vanto, non mi gonfio, non mi comporto in modo sconveniente, non cerco il proprio interesse, non m’inasprisco, non addebito il male, non godo dell’ingiustizia, ma gioisco con la verità; soffro ogni cosa, credo ogni cosa, spero ogni cosa, sopporto ogni cosa. Se sono sopravvissuto nel mio orgoglio fino a questo punto, ora arriva il colpo finale: io non verrò mai meno.

E, più altruista, posso immettere anche la persona che amo, i miei cari, possiamo immettere le nostre comunità, le nostre chiese: non sopravvivranno al colpo finale, alla croce dell’inno all’amore: anche le nostre chiese verranno meno.

È chiaro, l’apostolo, notoriamente non un grande esperto di fidanzate, fidanzati o famiglie (di comunità invece sì), qui canta Cristo, solo Cristo, senza mai pronunciare il nome, racconta la vita di Gesù: Cristo è paziente, è benevolo; Cristo non si vanta, non si gonfia, soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. È il Cristo crocifisso e risorto che non verrà mai meno. Ecco l’amore fattosi carne, immessosi in noi, come noi ci siamo immessi nella sua parola, che ci libera da noi stessi, dalla dittatura del nostro io gonfiato iperbolico, ingombrante e impietoso, prendendo in mano le nostre coscienze, le nostre esistenze, le nostre chiese. Ed ecco perché è l’amore la più grande, perché è Cristo, Dio stesso, in persona. Ed ecco perché è vero: si è immesso in quell’amore fino in fondo.

Di questo Dio non abbiamo altra immagine che Gesù Cristo. E di questo Cristo dobbiamo fare attenzione a non farci l’immagine sbagliata: non è una singola persona che ricordiamo con un ritratto. Questo Cristo ce l’abbiamo solo come «foto di gruppo», in azione con altri. La sua immagine è la tavola della cena, l’agàpe, il Cristo in azione, interazione, con il mondo tanto amato, da darsi, spendersi. La sua immagine siamo noi insieme, noi chiese in interazione con il mondo tanto amato da Dio, da darsi, spendersi, come solo il suo amore sa fare.

Ora abbiamo fatto questa riscoperta di Dio e di noi stessi, del Cristo, come in uno specchio ci siamo specchiati in questo inno all’amore, in modo oscuro.

Ora ci immettiamo con questa nostra vocazione, con questa nostra istruzione in Cristo che non verrà mai meno nella terza strofa, in questo mondo in cui tutto ha il suo limite, il suo tempo, tutto è precario, passeggero, mortale. Abolizioni, cessazioni - in parte, tutto solo in parte. Tutto viene meno.

La profezia nella predicazione dell’inno all’amore di Tullio Vinay che 70 anni fa aveva inaugurato il Centro Ecumenico di Agàpe ha lasciato un profondo segno nella biografia di tanti e tante, quasi tutti e tutte voi. Un’esperienza di amore dopo l’assoluto venire meno di tutto della seconda guerra mondiale. È venuta meno? La nostra spiritualità, la nostra forza positiva e propositiva, sì, sono venute meno in questi anni. Certo, siamo in buona compagnia di tutte le creature, gemiamo insieme a loro: anche la biodiversità, gli animali, le stesse lingue in senso proprio in buona misura sono minacciate dall’estinzione. Sì, certo, anche le nostre chiese, in questi anni, sono venute meno.

Rileggere, anzi ritrovarsi nell’inno all’amore e ripartire da qui oggi, comporta una cosa: smettere di ragionare come bambini che vogliono tutto e non rinunciano a niente. Ripartire, ricostruire da persone che sono passate per la croce dell’inno all’amore. Ripartire, ricostruire da persone che hanno visto venire meno così tanto. Ripartire, ricostruire oggi che gli ultimi testimoni oculari della shoà e della seconda guerra mondiale se ne stanno andando, e le nostre teste formate nel ‘900 si perdono, nel pieno di una pandemia che allo stesso tempo ha accelerato e acutizzato la nostra presa di coscienza di un mondo tecnologico, scoperto dai più quasi a sorpresa. La nostra sfida rimane: ricostruire sul fondamento della parola del Cristo. Riapprezzarla, rinnamorarsene, fino in fondo. Quale costruzione sarebbe oggi il nostro Amen! all’inno all’amore, allo sh’ma jisrael dell’agàpe di Dio?

Non lo so, lo scopriremo solo vivendo, camminando, discutendo insieme. Posso, possiamo, forse come l’apostolo solo mostrare una via, questa via, e costruire sulla via di questa parola per eccellenza.

Ma una cosa la so e la confesso insieme a voi: la sfida di guardare in questo specchio, di avere il coraggio di immettersi, di immergersi in queste parole, di passare per la croce dell’inno all’amore, sgonfiare il proprio io, rinunciare a sé stessi, rimane sempre più grande di ogni altra sfida che troviamo sul nostro cammino. La sfida per eccellenza. La nostra priorità: l’amore che richiede sempre una decisione, una scelta chiara.

Di questa via per eccellenza sappiamo che alla fine qualcosa dura, rimane. Camminando insieme su questa via, qualcosa di noi rimane: la fede, la speranza, l’amore.

Non sono semplicemente la mia, la tua, la nostra fede, la nostra speranza o il nostro amore. Anche qui ci precede il Cristo: sono la sua fede, la sua speranza e il suo amore. Ma lo Spirito li ha posti, li ha immessi in noi. Con stupore apprendiamo, sentiamo che Dio ha messo tutta la sua fiducia, tutta la sua speranza, tutto il suo amore in voi, cari Monica e Gabriele, come in tutti noi. Lontani da ogni mielosa retorica dell’amore, afferrati dall’amore di Dio, dal quale nulla e nessuno ci potrà mai separare, sappiamo ora in chi abbiamo creduto. In Cristo Gesù.