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di Bruno Gabrielli

L’annuale sinodo della Chiesa evangelica dei Fratelli cechi tra secolarizzazione e impegno diaconale

Torre Pellice, 6 Giugno 2018

“Stiamo ancora imparando come la chiesa possa esistere in una società libera e democratica”. Lo stesso concetto di “responsabilità personale” è “qualcosa di nuovo per noi”, così come la consapevolezza “dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia sociale che la vita in una società basata sul mercato porta con sé”. Così si legge in un opuscoletto distribuito durante il Sinodo della Chiesa evangelica dei Fratelli cechi (CEFC), tenutosi a Litomyšl dal 31 maggio al 2 giugno scorsi, agli inviati da chiese protestanti sorelle di Polonia, Slovacchia, Ungheria, Paesi Bassi, Scozia, Francia, Italia e perfino Corea. Per l’Italia era rappresentata la Chiesa evangelica valdese, la cui antica storia di movimento evangelico medievale europeo e poi di piccola chiesa di minoranza a fronte di regimi cattolici per lo più intolleranti - e dunque ripetutamente discriminata, ferocemente perseguitata o costretta all’esilio - s’intreccia inestricabilmente con quella dell’evangelismo boemo soprattutto nel XV secolo.

A rendere la CEFC una chiesa a prima vista ripiegata su se stessa a difesa della propria sopravvivenza è però il retaggio non tanto di quel remoto passato, quanto quello della ben più recente e meno feroce, ma pure più sistematica e soffocante oppressione subita durante quarant’anni di regime comunista filosovietico (1948-1989). I dati parlano chiaro: nel 1918, quando nacque dalla fusione tra riformati calvinisti e luterani, la CEFC contava circa 250.000 membri e nel 1938 ben 325.000, mentre oggi non supera le 85.000 unità ovvero l’1% scarso della popolazione di una nazione, la Repubblica Ceca, notoriamente fra le più secolarizzate del mondo (la stessa Chiesa cattolica romana si è attestata sul 10%). Dal 2013, inoltre – più o meno in coincidenza con la prima elezione dell’attuale presidente della Repubblica MilošZeman, già primo ministro socialdemocratico e poi fondatore di un partito nazionalista filorusso, assai poco europeista e fermamente contrario all’accoglienza di rifugiati e migranti – la CEFC, che sin dalla sua nascita godeva di robusti finanziamenti statali, deve far fronte a una loro programmata riduzione fino a zero nel 2029. 

Ecco perché anche quest’anno il Sinodo ha lavorato quasi esclusivamente all’elaborazione di un “piano strategico 2030” di natura prettamente riorganizzativa per quanto riguarda l’indispensabile autonomia finanziaria, la distribuzione delle parrocchie sul territorio, la cura pastorale (anche a motivo del crollo delle vocazioni al ministero a tempo pieno: di dieci donne e uomini “ordinati” nell’anno trascorso e presentati al culto d’apertura solo una è una pastora laureata alla Facoltà teologica protestante dell’Università statale di Praga e tutti gli altri, giovani e meno giovani, sono  predicatori o predicatrici locali) e i progetti diaconali (servizi sociali) offerti senza alcuna discriminazione di tipo etnico, religioso o sessuale (la “Diakonia” della CEFC è a tutti gli effetti la seconda ONG del paese).

Al di là delle apparenze e nonostante la tradizionale timidezza “verso il potere dello stato” confessata dal moderatore (o “senior”) Daniel Ženatý nella sua relazione al Sinodo, la CEFC non è infatti una chiesa programmaticamente chiusa nei confronti della società, ma neppure limita la sua testimonianza pubblica alla sola assistenza alla popolazione maggiormente bisognosa d’aiuto: persone povere, anziane, disabili, ammalate, emarginate, discriminate... bensì, anche se il Sinodo di quest’anno non ne ha parlato, è in attiva ricerca di pratiche di diaconia politica come ad esempio la decisione dello stesso moderatore di rifiutare l’invito del presidente Zeman, rieletto lo scorso gennaio, a presenziare alla cerimonia del suo insediamento “per offrire un sostegno se non altro simbolico alle forze che cercano di preservare la nostra democrazia”; la riaffermazione del valore universale della solidarietà verso gli ultimi contro i presunti e discriminanti “valori cristiani” spesso e volentieri richiamati in funzione nazionalista dallo stesso Zeman; o anche la lettera scritta al primo ministro Andrej Babiš su sollecitazione della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, per chiedere che il governo ceco superi i famigerati accordi del Gruppo di Višegrad (Cechia, Slovacchia, Ungheria e Polonia) aprendo le porte a rifugiati e migranti dal Medio Oriente e dall’Africa.