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di Letizia Tomassone

«Il Signore mi ha chiamato fin dal grembo materno, ha pronunciato il mio nome fin dal grembo di mia madre. Egli ha reso la mia bocca come una spada tagliente,  mi ha nascosto nell’ombra della sua mano... Ma io dicevo: “Invano ho faticato; inutilmente e per nulla ho consumato la mia forza. Ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio.”»

Il dono della parola è affidato al profeta e ai suoi contemporanei, così come a noi. Un dono per uscire dal senso di impotenza che a volte domina il nostro pensiero e non ci permette di far fruttare la speranza che ci è affidata. E’ una speranza che non viene da noi, un dono di saldezza che non sta in ciò che noi costruiamo da soli, ma è dono della visione di Dio che coinvolge una intera comunità.
Così ci viene detto al tempo stesso che noi non siamo il terminale da cui parte e in cui si esaurisce l’azione. Siamo inseriti in una comunità e siamo rimandati a una parola esterna: la vocazione che viene da Dio. Ci è affidata una parola su cui faticare e siamo chiamati a sviluppare tutta la nostra creatività nel far fruttare i doni e le abilità di cui siamo portatrici e portatori.
Così la consapevolezza di essere chiamati, di essere preziosi per Dio, non diventa un tesoro personale che esclude gli altri. Si apre anzi come un tesoro da condividere, come una ricetta speciale di cucina che non serve se ne facciamo solo un uso personale, ma diventa eccezionale e fonte di gioia se prepariamo quel cibo per gli amici e le amiche. In questa condivisione si fa strada la speranza, anche attraverso lo scoramento o il senso di inutilità che a volte ci prende. Perché la speranza ci rimanda a qualcosa di più grande di noi e ci apre un orizzonte da cui riceviamo gioia e nutrimento.