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di Erika Tomassone

«Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando tu veda uno nudo tu lo copra, e che tu non ti nasconda a chi è carne della tua carne?»

Tutto da ricostruire a Gerusalemme! La terza parte del libro del profeta Isaia, vede così il ritorno degli esiliati da Babilonia. Ma non basta essere finalmente ritornati alla terra della promessa, e riprendere il culto, in particolare il digiuno segno di pentimento, memoria dell’evento traumatico della fine di una certezza: l’inviolabilità di Gerusalemme, città della presenza del Signore.

Questo culto ritrovato, accade nella situazione di un’economia urbana fallita fatta di legami oppressivi e di miseria. In questa situazione il digiuno come atto di culto non è elemento della ricostruzione, perché la rinuncia al cibo, la spogliazione, il sedersi per terra riguarda solo chi ha cibo, vestiti e casa mentre le strade di Gerusalemme sono piene di infelici. Il culto non è capace di ridisegnare la realtà del popolo di Dio perché chi vi partecipa non si fa carico del suo simile nella sua mancanza.

La prossima domenica le chiese valdesi e metodiste sono chiamate a riflettere sull’illegalità intesa come distruzione dei rapporti sociali, di quel patto tra cittadini e cittadine che chiamiamo Stato. Vogliamo sottolineare che i nostri culti si celebrano oggi in un contesto che espone a nuove schiavitù, che frantuma la società, che porta alla disperazione di alcuni o addirittura alla loro morte. Al tempo stesso vogliamo impegnarci per ricostruire un patto sociale che aumenti le possibilità di vita con regole certe e giuste.